insieme

 

Fermo un istante prima

la mia imitazione

per non prendere in prestito il dolore

del poeta

Neppure trascino il tuo ricordo

nella pancia del seduttore

che costringe

in una poesia

l’amore

Oltre queste righe

si vola insieme

 

brivido

Abbandono la quiete
per un attimo,
per questo brivido.
Perché questo brivido lo voglio sentire.

Dicevo, sapevo
che l’orizzonte è alto
e appassionarmi ad un amore
non l’avrei fatto più.

Eppure, giaccio
aspettando la tua voce,
e me la voglio godere.

Se mi accendi
il cuore
per ogni volta che danzi la vita.

sfumature

Chi parte
e torna
con qualcosa da dire
dovrebbe sempre salire sul palco

Ma chi fabbrica artisti
non riconosce che l’arte
è solo nella vita

Per quanto mi riguarda
quando passa
me ne nutro
tra un singhiozzo
e una scoperta

Perché quelli come me
non importa la strada da dove arrivano
si ritrovano sempre insieme

Mentre voi vi spendete
a cercare qualcosa
che quando scorre
non scegliete

Incapaci
di rifiutare chi vi afferra
e di volere
chi volete

bailarin

veo
que
no me acostumbro

yo sé
le dos calles

morir iluminado de la verdad
o abandonarme a vivir

in eso
destino vacante
escribo poemas para Dios

porque yo soy
suyo bailarin
y mi vida
es su tango

no hay
ninguna respuesta
aficionado
como soy
a la pregunta

felicità

in una colazione
a buffet di un economico ostello
dove passano jeff buckley e jarryd james

quando dalla finestra intravedi una leggera pioggia
che sfoca la visione degli armadietti colorati

ti dimentichi di essere canonico,
metodico,
misurato,
politico,

e usi tutto per segnarti una poesia

pensi alla notte spesa tra gli impulsi
puttane maleodoranti
ispirate note di neotango

non te la togli di dosso quella voglia d’avventura
proprio come quel puzzo d’ascelle
di certi locali dove vai a chiudere certe serate

la vita
è di chi ad un passo della vittoria
abbandona

anticipare a capofitto la discesa
l’unico modo di prolungare
la felicità

IL PIONIERE

image1

Scritto a quattro mani con Domenico Gemelli. 

1.
Il mattino era giovane e fresco e speranzoso.
L’aria sulle guance tenere del ricercatore faceva il solletico al collo libero dalla barba, che insieme ai folti e riccioluti capelli vibrava nel vento. Camminava. E il tempo, bello, tradiva un freddo acuto. Ma nemmeno tanto. La pelliccia faceva il suo dovere così come il cappello e i mocassini di tasso. Fiumi, boschi, montagne, laghi, rocce, alberi, prati, vento, sole, pioggia, neve, terra, fuoco. Camminava, camminava, camminava quasi sapendo con certezza la strada da fare. Perché la ragione lo indirizzava sicura verso il destino del mondo, uguale al suo.

Fu ad un tratto che si rese conto di sentire un pianto, un lamento. Come un grido di dolore di un neonato. Corse piano verso la fonte che divenne uno strano stimolo per le sue orecchie. Corse come dannato. Disperato quando si intensificò l’amplificazione ai suoi timpani. Si fermò di colpo sulla cima di una collinetta erbosa che un vento gentile ma sicuro batteva dall’origine del tempo.

Si fermò lì in silenzio immobile e infastidito terribilmente dai compatti esili ciuffi d’erba su cui gravava il peso dei suoi piedi. Calpestati e incitati dal vento, i fili verde acceso, battevano con foga le caviglie dell’uomo. L’uomo stette lì immobile. Poi, improvvisamente, si mosse.
E mentre scendeva a valle non credeva ai suoi occhi. Più si avvicinava, più metteva distanza tra se e quei ciuffi verdi, e più rimaneva basito.
Fu all’improvviso che si trovò sopra quella piccola causa di tale lamento, che con gli occhi sgranati e la bocca aperta lo perpetuava petulante. Gli fu sopra e tutto gli apparve in bianco e nero.

Un bellissimo aquilotto, completamente solo, pigolava disperato.
Il ricercatore sorrise al ciuffo pasticciato e sconvolto di quel piccolo principe guardandolo dritto negli occhi. Aspettò qualche momento per vedere se giungesse la madre, ed era pronto a fuggire veloce. Ma niente accadde. Allora rise. Pensando che se non fosse stato per lui quella bellissima creatura in quello stesso giorno, che sembrava con tutta probabilità il giorno della sua nascita, sarebbe anche sicuramente morto. Rise di un sorriso paterno e benevolo. Prese con se il piccolo pennuto e da quel giorno lo allevò.

Diventata grande, l’aquila volava per osservare dall’alto il territorio e tornava ad informare il ricercatore. I due comunicavano con un linguaggio fatto di sentimenti e fiducia. Il ricercatore, riusciva a vedere negli occhi dell’aquila i branchi di leoni che riposavano all’ombra, larghi e tumultuosi fiumi difficili da guadare, le insidie improvvise degli strapiombi o l’infittirsi di alberi e di erba alta e folta. Così, da quello che leggeva negli occhi di quella fedele compagna, sceglieva con intelligenza il percorso da intraprendere. Quando l’aquila volava, rimaneva fermo e l’aspettava. L’aquila, quando il ricercatore si metteva in cammino, pazientava e placando il suo istinto rimaneva immobile su una spalla del suo protetto. Il ricercatore si fidava dell’aquila e quando si fermava a bagnarsi nei ruscelli durante il viaggio non doveva controllarla perché sapeva che lei sarebbe stata sempre là ad aspettarlo e quando invece riprendeva il cammino interpretava il percorso, fiducioso delle informazioni lette negli occhi della sua amica.

Un giorno, il ricercatore incontrò nel cammino un bellissimo cucciolo di cavallo di cui subito si innamorò. Ovviamente, affinché potesse adottare il puledro, il ricercatore doveva essere certo che l’aquila non ne fosse disturbata e che dunque non volasse via. L’aquila infatti, era diventata fondamentale per il ricercatore. D’altronde, quando il piccolo puledro fosse cresciuto, il ricercatore avrebbe potuto cavalcarlo e raggiungere più velocemente e agevolmente i posti che l’aquila gli avrebbe di volta in volta indicato. Dunque, il ricercatore prese con se il cavallo e lo crebbe facendolo abituare all’aquila e viceversa, insegnando alla fedele regina del cielo a non aver paura del quadrupede.

Diventato grande, il cavallo a volte galoppava forte e potente, mentre il ricercatore, avrebbe voluto mantenerlo ad una certa velocità. Altre volte, doveva impegnarsi con grandi sforzi e concentrazione a tenerlo fermo immobile quando l’aquila era in perlustrazione o quando sceso a piedi, perlustrava lui l’area. Poi, a volte, quando il cavallo galoppava, o il ricercatore scendeva a camminare, capitò che anche l’aquila desse cenno di non essere in sintonia con le decisioni e le esigenze del cavaliere. Così che, l’aquila, in piena corsa faceva brevi ed improvvisi voli che costringevano il cavaliere a fermare bruscamente il cavallo o a trovarsi in situazioni di pericolo nel mezzo di sentieri delicati.

2.
Sole e luna, in uno sfiancante inseguimento senza fine, si avvicendavano nella profondità del cielo a volte liscio, a volte ghiacciato, ora nero, ora rosso, ma sempre presente. Eterno.
Quel cielo che li guardava dall’alto li inseguiva giocando coi loro destini. Mostrava la sua presenza regalando giornate in cui i tre compagni potevano godere del sole e della fresca brezza mattutina. Altre in cui costretti dalla potente pioggia rallentavano il loro cammino concentrandosi sulla ricerca di un sicuro riparo asciutto.
Passò del tempo, ma i tre compari non se ne accorsero, presi com’erano da ora una, ora l’altra preda, l’uno o l’altro bivio, l’uno o l’altro viandante che incontravano giorno dopo giorno nel loro cammino. In un equilibrio costante tra l’istinto, la fortuna e la ragione, intenta a discernere ciò che si poteva e ciò che non si poteva raggiungere.
Questo equilibrio, fino allora, li aveva spinti così lontano dalla originaria terra natale, principio della loro esistenza.
Ancora passò del tempo. Ma ci fu un giorno in cui il ricercatore sembrò accorgersene.
Arrivò un istante in cui si guardò improvvisamente intorno. Mentre l’aquila volava alta su di lui compiendo maestosi giri. E il cavallo che montava, viaggiava spedito come una locomotiva impazzita.
In quell’istante al ricercatore sembrò che il mondo si concentrasse tutto in quella prateria che gli zoccoli del cavallo scalfivano rabbiosi. In quella prateria che scendeva e risaliva in una serie infinita di grandi e piccoli avvallamenti che si scontravano, in lontananza, più in basso alla sua destra e sinistra, con le meravigliose macchie di leopardo dei boschi.
Anche la lontana montagna, quel complesso roccioso azzurro, viola e arancione che dovevano superare, gli sembrava fare parte del suo mondo. Eppure, era di certo il limite di un altro mondo, altre praterie, altri sconfinati avvallamenti, che si confondevano tra gli alberi di altri boschi, al tramonto, sull’orizzonte.
Solo la fiera aquila che dall’alto, sicura di sé, precedeva il forte cavallo e il suo coraggioso cavaliere sembrava riuscire a comprendere con indiscussa certezza le reali distanze di quell’universo infinito.
In quell’istante, nell’istante in cui la percezione del ricercatore fu quasi in balia del galoppo forsennato.. in quell’istante in cui la sua vista sintetizzò quel panorama scorrevole in sottili linee orizzontali parallele bianche e rosse…
In quell’istante, il ricercatore capì che la ragione della sua ricerca non era la brama di fama o gloria. O conoscenza di terre lontane e ancora sconosciute. Quello che fin’ora aveva certamente cercato era se stesso. La brama che lo bruciava era la brama di raggiungere il possesso della sua natura.
Ma qual’era la sua natura?
In quell’istante.. intuì anche di colpo qualcosa che lo sconvolse e lo mortificò.
Intuì pensando proprio alla natura di quei due animali così perfetti. Che egli aveva preso nel suo cammino e che ora usava quotidianamente. Essi, se pur apparentemente differenti, lo avevano illuminato della stessa luce della verità.
Le anime delle due bestie, come grandi e possenti rami che toccano spicchi di cielo differenti guardando a nord o sud o anche ovest ed est, erano figlie del medesimo tronco. Quel tronco, quella base, quell’origine comune altro non era che l’istinto più nero e profondo. L’istinto prominente che li dominava.
Era quello contro cui aveva combattuto per lungo tempo per assoggettarli al suo volere.
Il ricercatore si sentì triste. Di una tristezza senza rimedio. Un malessere vuoto e senza nome che lo colpi al cuore.
Fu allora che il giovane e forte cavallo, come quasi riuscendo a scrutare nell’animo dell’umano amico, rallentò inizialmente pian piano la sua corsa. Fino, in seguito, ad interromperla. Perché in quel momento il cavallo capì. L’aquila rapace fece un grido.
Un altro, ancora più acuto e terribile lo seguì. La risata isterica della regina dei rapaci non riuscì tuttavia a interrompere il pensiero del pioniere che continuava come un fiume a fustigare il suo cervello.
Il suo problema: la sua ragione.
Egli era nato per essere schiavo perché il suo istinto, era schiavo.
Niente di più crudele era che essere schiavi di se stessi. Perché la ragione che sottomette l’istinto, l’artificio che domina la natura, erano per lui motivo di lancinante fustigazione.
Fu arrabbiato poi quando pensò che la sua condizione schiava era anche l’unico motivo di repressione della bellezza naturale della vita intera.
Nella sua schiavitù aveva trascinato cavallo e aquila, che diversamente da lui, erano nati per essere liberi e mai oppressori di quel mondo di cui facevano a pieno parte.
Questi erano i suoi pensieri.
Si vide così come “lo schiavo padrone che rende schiavi i liberi”.
Questa, la sua confusa conclusione.
Quando queste spaventose idee si resero chiare nella sua mente era ormai buio.
Il fedele cavallo, dal quale era sceso, restava fermo immobile a lui vicinissimo, sotto un grosso sanbuco bianco. Lo osservava preoccupato come quasi nemmeno un amico ubriaco fa, con l’altro amico, pure ubriaco.. Sbigottito il confuso bipede, fece finta di abbassare il collo con la scusa di seguire un gustoso filo d’erba…in quel momento inesistente.
L’aquila, muta con lo sguardo arcigno aspettava sul ramo.
Quella notte nemmeno una stella a illuminare il cielo.
Tutto a un tratto il ricercatore si mise a correre o meglio si lanciò selvaggio. Pazzo e selvaggio.
Si lanciò in una spaventevole corsa.
Libero, animale.
Fuggì. Abbandonò il puledro e la sua aquila e fuggì.

3.
Passò la notte e si fece mattino, ma ancora un pò buio. Le nubi minacciose coprivano il cielo e la pioggia che già bagnava il sotto svegliò il sonno del maestoso equino che subito sbuffò un leggero nitrito.
La pioggia grigia iniziò a cadere fittamente dritta e un altro sbuffo servì da sveglia ad un corvo che aveva preso il posto dell’aquila sul ramo dell’albero durante la notte. Cavallo sbuffò un altro nitrito, più forte questa volta. Rimase fermo sotto l’enorme sambuco bianco fino a quando non si accorse delle altissime ali della compagna volante che virò in una lenta picchiata giungendo ad appollaiarsi li vicino.
Entrambi si fecero compagnia.
Passò quel giorno così. E molti ne seguirono senza che il cavallo abbandonasse per un solo istante quella che era divenuta ormai la sua casa, l’aquila invece volava alta senza ripetere mai lo stesso giro ma sul finire del giorno sempre tornava a fare compagnia all’ormai unico amico che gli rimaneva.
Era allora che i due si guardavano dritti negli occhi per parlare. La natura li aveva dotati certamente del linguaggio muto della mente e i due esseri sembravano interpretarlo alla perfezione.
Ogni volta però il loro dialogo si concludeva con un silenzio, vero questa volta, che durava tutta la notte e tutto il giorno successivo fino al tramonto.
Era allora che l’aquila scendeva e il dialogo poteva ricominciare per terminare sempre allo stesso modo: silenzio.
Neanche l’aquila era riuscita quel giorno dall’alto del suo regno a intravedere con i suoi acutissimi occhi dove aveva concluso la corsa l’ormai perduto vagabondo. Non poteva o forse non voleva. Il cavallo pensava questo e mille altre cose che sempre, ogni notte, riferiva all’amica pennuta. Il tempo passava e ora lo si intuiva prepotente. Sembrava che fosse veloce il doppio del normale quasi a volersi riprendere beffardo, il tempo già trascorso e mai accusato. Ma si è giovani una sola volta e il cavallo pian piano subiva un ritorno ai suoi istinti più originari, che mai aveva imparato a conoscere perchè da subito era stato allevato dal cavaliere.
Ricordò innanzitutto che l’aquila, che il cavaliere gli aveva insegnato a tollerare, le era sempre stata antipatica. E ora lo percepiva ancora chiaramente. Lo aveva dimenticato per amore del suo cavaliere, ma le era sempre stata antipatica. Per natura.
Trascorse molto tempo e dopo altrettanto tempo che per una strana inerzia innaturale spese bloccato sotto quel sambuco bianco in cui lo aveva lasciato il suo vecchio padrone, arrivò un momento in cui prese a vagare. Ancora libero. Nelle praterie sterminate.
Passò del tempo e infine aveva completamente raggiunto la sua vera natura di libero figlio della terra.
Andava al fiume, se gli andava, correva, se gli andava.
Viveva se gli andava.
L’aquila lo guardava dall’alto e lo stuzzicava terribile. Non lo abbandonava mai. E da quando il cavallo aveva abbandonato il sanbuco bianco e aveva preso ad errare libero era sempre con lui. Nell’alto dei cieli.
Gracchiava. Planava, girava, si lanciava in picchiata. A volta cacciava, altre esplorava, si spingeva in cieli nuovi e prima sconosciuti, ma poi tornava dove il suo amico equino si fermava a riposare la notte.
Lei non si era mai dimenticata, diversamente da quanto aveva fatto il cavallo, delle avventure trascorse insieme. Si ricordava ancora quei lunghi disperati inseguimenti ma ora, senza più il ricercatore gli sfuggiva qualcosa: il perchè.
Perchè lei e lo strano essere mangiaerba erano un tempo stati così amici. Qualcosa gli sfuggiva.
Ora pensava solo che fosse così strano!
Niente mai gli sfuggiva se non era lei a volerlo. Anche lei come il cavallo aveva dopo tempo imparato ad abbandonare il sanbuco e riacciuffato la vita. Che continuava anche senza il suo vecchio compagno umano.
Aquila volava, cavallo correva, lontani mille miglia o l’uno sotto l’altro la vita continuava, libera come sempre.
Fino a che..
Un giorno, la formidabile cacciatrice vide qualcosa.
Qualcuno.
L’uomo.
Subito ricordò tutto. Comprese lo strano affetto non ricambiato che nutriva per l’equino. Ricordò che un tempo, lei era gli occhi di un umano mentre quel semplice ma potente quadrupede, le sue potenti zampe. Guardò quell’umano senza pelo fare il bagno nel torrente ma non riusci a capire con certezza se si trattava del suo vecchio: gli umani gli sembravano tutti uguali.
L’umano dai lunghi cappelli grigi e dalla folta barba nera, si tuffava e riemergeva dalle acque come un vecchio stupido delfino. Si alzava su due piedi e tirandosi i capelli indietro sputava gocce di fresca acqua sorgiva. Si rituffava e riemergeva.
A pelo d’acqua, rivolse i suoi occhi fradici verso il cielo e vide un miraggio.
In lontananza la grande aquila virava e girava come l’avvoltoio sulla carcassa.
La sua vecchia aquila. Era uguale a nessun’altra.
Era contento.
Fece un grido basso, a salutare la vecchia amica che aveva ritrovato. Anche l’aquila gridò, e il suo grido si unì con quello del suo padrone. Uno stridulo fischio come solo lei sapeva fare in un animalesco sbraito che facevano un suono strano e unico.
All’aquila parve di provare paura. La prima volta nella sua vita che un sentimento, un emozione così disperata l’avvolgeva minacciosa e misteriosa.
Del resto, non sapeva cosa fosse la paura. E ne ebbe più paura.
Anche il cavallo, lontano, lontano, lontano, capì. Sentì che c’era un vecchio amico non molto lontano.
Alzò la testa al cielo e iniziò a correre.
Il ricercatore, vagabondo, cacciatore salutava felice con i grandi movimenti semiarcati delle braccia.
Aveva fatto quel bagno almeno mille da che aveva abbandonato i suoi compagni di viaggio animali.
Mille volte era andato a caccia di cervi, mille volte aveva acceso il fuoco di notte.
Aveva lottato con orsi e lupi e sempre era riuscito a spuntarla. Era sopravvissuto per osservare le stelle luminosissime della notte selvaggia. .
Era passato molto tempo dal giorno che si era destato dal lungo sonno della civile costrizione e che aveva sentito che una nuova vita lo stava aspettando da qualche parte. Che lo stava aspettando già da molto tempo e che egli, rinvigorito da una nuova coscienza, non l’avrebbe più fatta attendere. La vita.
Dal giorno in cui trovò improvvisamente la libertà fuori da ogni città. Prima solo, poi con l’aquila poi in groppa al suo cavallo.
Era passato molto tempo anche da quella notte in cui si riscoprì uomo figlio della terra.
In cui aveva lasciato il cavallo e l’aquila del cielo. Da quella notte in cui il freddo si faceva sentire forte e il cielo se pur scuro scuro sembrava ai suoi occhi finalmente chiaro. Illuminato dall’istinto. Nulla in quell’istante di quella notte, gli sembrò più importante del suo istinto. Neppure lo sguardo intenso del cavallo che timidamente l’aveva guardato con gli occhi di chi, se fosse stato un uomo, sarebbero stati sicuramente quelli di chi domanda silenzioso cosa stia succedendo.
Perché sì era reso conto che nemmeno un giorno prima di quel momento aveva vissuto. Goduto a pieno. Vissuto. Niente. Tutto.
Tutto. Perché lasciò lì tutto. Quella notte.
Sotto l’enorme albero al quale aveva stretto la lunga corda che legava il suo tenero e forte destriero.
Sotto la volta nera nera che sembrava rappresentare perfettamente il suo animo. Quella notte.
Perché niente, il tutto devono essere neri neri.
Come quella notte.
Gli era venuta voglia di scalarlo quell’albero. In un’istante, quella notte, gli era venuta voglia di scalarlo.
Per un istante pensò pure di slegare il suo cavallo.
Perché l’istinto va e viene. E il pioniere non era abituato ad assecondarlo. Strascichi di ragione avevano combattuto nella sua mente. Ma poi, niente più.
Corse via. E da quel momento, ne avrebbe scalato di alberi.

4.
Ora, immerso nell’acqua, con il naso in aria e il mento e la bocca nell’acqua, in un altro istante…la verità vive negli istanti… si destò. Tornò in sé, maestosamente incredulo. Ancora. Muto.
Stava pensando.
Aveva pensato.
Terribile. Mille sensazioni lo assalirono.
Strano. Brutto. Cielo.
Sentiva di nuovo il dolore.
Probabilmente, il primordiale dolore dell’uomo che è all’origine di ogni civiltà.
Terribile. Eppure…Vita. Di nuovo.
Il fuoco della notte di stelle.
Confuso. Tutto era come la notte di mille giorni fa quando il ricercatore “visse”.
Ma tutto il contrario: il ricercatore-vagabondo morì e si riscopri pensatore. Senti rabbia, schifo, freddo, violenza, odio.
Sputò forte il veleno.
Sentiva qualcosa dentro se. Una frustrazione che nasceva da una nuova lotta al suo interno. Qualcosa sembrava ripugnare il suo stato. Ma non ne era convinto.
Allora con un gesto che sfidò una parte che lo costituiva, un’altra parte che pure lo costituiva gli fece prendere il coltello e ammazzare il daino che aveva catturato la mattina e che ora si divincolava legato lì pochi metri lontano.
Il sangue lo bagnò. Il suo viso cambiò.
Gli occhi, quegli occhi che finora si erano nutriti della bellezza pacifica del mondo si spensero folgorati nella violenza della natura.
Una parte morì.
In quel momento l’animo umano fatto di ragione prese il sopravvento.
Il ricercatore-vagabondo-cacciatore gettò un’inquietante risata. Folle.
Era l’ultimo saluto dell’istinto animale.
Un nuovo gioco sarebbe ricominciato.
Perché lui era nuovo.
Questa volta conscio di essere Uomo.
Mentre i suoi occhi guardavano la figura del cavallo che correva verso di lui farsi sempre più grande. E sentiva gli urli acuti della sua aquila.
Il ricercatore, neo-pioniere pensò:
“Io non sono l’aquila, ne il cavallo. Il mio compito non è quello di volare nell’aria e vedere tutto dall’alto, neppure quello di bruciare grandi distese con velocità”.
Pensò questo, il pioniere. Si avvicinò al cavallo, lo montò. Gettò un grido all’aquila che rispose, come sempre, unendo a quello umano il suo strillo divino.
E si rimise in cammino.
Questa volta aveva il suo cuore pieno di una nuova fede.
Prese a camminare e proseguì risoluto.
Certo che il cavallo e l’aquila avrebbero ancora una volta aiutato il suo cammino.
Mangiò carne quella sera.
Aveva trovato la sua natura.
Ancora una volta ma per sempre, quella vera.
Finché aveva vissuto da ricercatore, aveva vissuto sì da uomo ma senza capirne il significato. Qualcosa lo tormentava al suo interno, da quando aveva abbandonato la civiltà. Era certo che in essa non c’era il suo scopo, ma poi, nella solitudine della natura, una sfida pericolosa aveva invaghito il suo animo. Quell’uomo tanto sincero quanto forte si era abbandonato ad essa e si era avvicinato alla condizione animale.
Quando era un uomo faceva ciò che facevano gli uomini. Quando si abbandonò alla natura si ritrovò a fare ciò che le bestie senza pensiero, fanno.
Ma ora comprendeva che lui era un pioniere. E che nella sua vita avrebbe dovuto ricercare nuovi mondi, nuovi territori, nuove sorgenti…Che le avrebbe dovute regalare alle civiltà le quali se pur non custodivano il suo scopo, erano fonte di una dignità che accumuna tutti gli uomini…di cui pure si sentiva fortemente e irrimediabilmente, umanamente, parte.
Perché sempre, pure quando abbandonò la civiltà, da ricercatore, non faceva altro che seguire l’istinto, ma non lo sapeva. Curiosamente o fatalmente o stupidamente o chissà cos’altro, nel momento in cui decise, ragionando di diventare ricercatore forse per la prima volta in vita sua, inseguì l’istinto. Non fece altro che inseguire l’istinto con la ragione. Un istinto umano che non vive nella terra ma nel cielo. Un istinto che porta l’uomo a superare il suo stato ed evolvere la sua condizione.
Capì nuovamente e si ridestò per la seconda volta nella sua vita.
La ragione è l’istinto del genere umano.
Vivendo una vita di costrizioni istintive, l’uomo figliodellaterra domina il pensiero mortificando l’istinto.
Si solleva dallo stato di bestia, costruisce civiltà in cui poter vivere in sicurezza e in armonia con i suoi fratelli uomini.
Ma pur sempre, esisterà chi come il pioniere si sentirà spinto fuori dalle civiltà… perché le sue risposte non vivono in ciò che esiste. Nè le sue domande sono mai state formulate.
Il pioniere sempre sarà portato a viaggiare verso domande che non hanno domande, verso i nomi che non hanno nomi. Sarà bruciato da una inspiegabile brama che lo lega a fonti lontane che vivono accese nel suo animo fatto di idee. Questo animo speciale è l’animo di un pioniere. E il raggiungimento di quelle fonti senza nome, è il suo fine.
Capì tutto questo, il neo-pioniere.
E senza parole, partì nuovamente.

COME CAINO E ABELE

Caino e Abele

“Questo pezzo lo dedico a Manuel Mangili, ispiratore e coautore inconsapevole, oltre che mio primo lettore”. L’autore.

Pofka e Martino.

Due maschere, due ruoli carnevaleschi.

Uno figlio di un fisico polacco, l’altro di un pentito siciliano. 

Entrambi figli di emigrati. Entrambi laureati in lettere e senza un lavoro fisso.

Amici da sempre. Fin da quando nel cortile si contendevano le attenzioni del più simpatico del gruppo. Il più “splendido” e ambito.  Paradigma dell’italiano “sorriso e battuta” disarmanti.

Ora, i più “splendidi” erano loro.

Come se non fosse stato per caso si erano ritrovati in un momento della loro vita in cui dubbi e domande erano comuni. Vivevano una sintonia inusuale  per due solitari guerrieri ribelli come loro, sempre stati contro tutti e contro tutto.

Da quando si erano reincontrati si trovavano più o meno ogni notte allo stesso pub. Seduti al bancone, con un liquore in mano e a parlare liberi di ogni cosa. Analizzavano il mondo intero, senza preconcetti o inibizioni. 

Ma in fin dei conti sembravano impersonificare due visioni, due concezioni definitivamente opposte.

Quella sera, dopo essersi confessati di essere uno “un idealista”, l’altro “un pragmatico”, Pofka e Martino si ritrovarono a discutere sul bene e sul male.

  

Martino: “Il male è più di successo del bene. Il cattivo, lo scorretto è più efficace del corretto”.

“Però, sai cosa fa veramente la differenza?” lo interruppe Pofka.

Martino: “Cosa?”

Pofka: “Le donne”.

Martino: “Le donne?”

Pofka: “Sì, le donne. Se le donne non scegliessero il potere, ma la nobiltà e la lealtà di un uomo, se scegliessero la giustizia,la libertà e la generosità, allora il potere non coinciderebbe più col successo. L’uomo di successo sarebbe il povero, nobile e forte. Non il ricco spregiudicato e potente. Se  ti scelgono le donne sei di successo, e sei di successo perchè ti scelgono le donne”.

Martino, interessato dall’interpretazione originale dell’amico, disse con un ghigno curioso:“Può essere”.

Pofka: “Se ci fossero due persone, due rappresentanti di due stili di vita complementari e opposti: uno della spregiudicatezza, della cattiveria finallizzata alla realizzazione dello scopo e l’ottenimento del potere, l’altro dell’ideale, della nobiltà e della forza”.

“Un po’ come Caino e Abele” lo interrupe Martino.

Pofka: “ Sì, Caino e Abele. E che entrambi fossero da sempre i due rappresentanti ultimi di due regni, di due modi di vivere da sempre in contrasto e naturalmente opposti; se questi combattessero, a mani nude in un combattimento finale in cui chi perde perde tutto..e in cui le regole sono: “si combatte solo a mani nude”..mi segui?”

Martino: “ti seguo”

Pofka: “..nella durata di tutto il combattimento Abele usasse le mani nude e dominasse Caino per forza e abilità,fino a che però Caino non tira fuori un arma (contro le regole) e lo neutralizza, vincendo.

Martino: “Caino vincerebbe il potere”.

Pofka: “Sì, ma se tutte le donne presenti su la faccia della terra in quel momento si schierassero dalla parte di  Abele, rinunciando a vivere nel regno di Caino, fino a morire piuttosto…Se scegliessero la nobiltà, la lealtà e la correttezza di quell’uomo sconfitto dalla cattiveria, dalla slealtà e dalla spregiudicatezza di Caino. Se scegliessero quell’uomo che se pur ci fosse stata la possibilità di barare e combattere armi pari contro il baro, non l’avrebbe mai fatto per idealismo, coerenza e correttezza eroiche,  il vincitore alla fine sarebbe comunque lui. Perché le donne l’hanno scelto e perciò l’hanno reso il vincitore. Caino, rimarrebbe solo. Col potere, ma il suo istinto accuserebbe un grosso colpo. Dallo stomaco, qualcosa raggiungerebbe il suo cervello facendo leva sulla sua etica. A poco a poco perderebbe le forze. E a quel punto o si adatta o muore. O diventa “buono” o muore. E invece, nella vita succede il contrario: Abele si adatta a Caino dopo aver ricevuto il grosso colpo. Ed è Caino il paradigma più vincente”.

Martino: “Quindi c’è differenza tra potere e forza..Chi raggiunge il potere con qualsiasi strada, può soggiogare il forte, fare leva sul suo istinto di sopravvivenza e modificarlo”.

Pofka: “Sì”.

Martino: “Ma allora non solo le donne, ma anche chi è al potere può decidere quale paradigma far dominare”.

“Proprio così” disse Pofka soddisfatto, sorseggiando il suo liquore.

“L’uomo, che se ne farebbe del potere senza le donne? Ogni cosa che fa è per conquistare la donna. Ogni singola cosa la fa per la donna. Il poeta che scrive poesie specializzandosi nella sua sensibilità, il business-man che crea e trasforma business facendo soldi, persino il filosofo che vive nei suoi pensieri, ognuno di loro agisce in quel modo”,

Si fermò a sorseggiare ancora una volta il suo whiski e riprese: “Perché in un momento della sua vita ha percepito che quello era il modo per conquistare la donna. Per il resto, chi agisce schiacciando e barando, lo fa sempre per la donna: per mantenerla a se”.

Mentre erano assorti in quei discorsi, Pofka si soffermò con lo sguardo su una coppia appena dietro Martino.

Il ragazzo, capelli radi e corti, stempiatura e piazzola evidenti, indossava un maglioncino a V coi rombi fucsia e color salmone. La ragazza, bionda, capelli corti, occhi verdi e un neo sulla gota destra, sembrava guardare Pofka già da un pò.

Forse, aveva sentito i discorsi che lui stava facendo assieme a Martino.

A un certo punto, mentre i loro occhi erano gli uni negli altri,  la ragazza piano piano gli mostrò il dito medio.

Continuarono a guardarsi negli occhi. Per un minuto circa filato, finché Pofka non disse:

“Perché?”

Lei rispose muovendo le labbra:

“Sfigato”.

Martino chiese a Pofka cosa stesse succedendo e Pofka, dopo aver ripetuto “Perché?”, spiegò velocemente a Martino che una ragazza lo fissava con un’ “espressione di dissenso”.

Lei continuava a guardarlo.

Poi, dopo altri minuti che si fissavano Pofka le disse:

“Possiamo stare così tutta la serata. Che hai? Ti piacciono i miei occhi?”

Lei fece spallucce.

I suoi, Pofka, li trovava splendidi.

“La adoro” disse a Martino,  “mi fissa e mi sfida. Io la adoro”.

“Che cazzo dici Pofka?”

“E’ splendida. Mi ha offeso. Mi sta sfidando, ma la adoro. Non so neppure il perché mi stia facendo questo. La adoro. La adoro. Lei lo sa.

Vedi? quello che stavamo dicendo: sa quello che sono, sa che la voglio e mi mostra il medio. Lei sa tutto e lo capisce, non so come, ma lo capisce. Io la voglio, e in qualche modo lei lo sa. E’ con quel senza palle anonimo che ha attaccato lite con te mercoledì alla fiera del libro ricordi?”.

“Già. E’ il suo ragazzo?”

“Eppure non si sono scambiati neppure una carezza per tutta la serata”.

“Fatto sta che si accompagna con quello”

“Comune, senzainfamiasenzalode, insulso e pure bruttino”. Disse Pofka, e aggiunse:

“Oi, lei ha fatto spallucce e mi continua a fissare”

“Sprechi il tuo tempo con me? Guarda il tuo ragazzo, no?”. Disse Pofka alternandosi tra le riflessioni comuni con Martino e l’interazione con la ragazza.

“Mi guarda. Che begli occhi, la adoro. E’ splendida. E’ splendida”.

All’improvviso Pofka si alzò, sotto gli occhi curiosi e attenti di Martino. Si fece spazio tra le sedie e raggiunse il tavolo della biondina.

La guardò e le disse:

“Hai ragione a mandarmi a fanculo, e mi accodo a te: mi mando anch’io a fanculo. E sai perché?

Perché appartengo a quel genere di persone che per timidezza non si avvicinano mai a un tavolo di un pub per dire con cortesia e stile a una ragazza come te, che la trovano bellissima, la più bella donna che abbiano mai incontrato.

Io  mi faccio coraggio, e ora,

mi sento di chiederti scusa a nome di tutta questa categoria,

perché non agiamo.

E alla fine, vi costringiamo ad uscire con uomini vuoti e senza fascino”.

A quelle parole Pofka guardò il tizio ‘senzainfamiasenzalode’ dritto negli occhi, lui accennò una reazione di finto orgoglio, ma si rimise a cuccia non appena vide dietro di Pofka, Martino, spostare di riflesso la sedia. Pronto a raggiungerlo.

Pofka concluse:

“E se mi mandi a fanculo, forse è perché tutto questo, tu già lo sai”.

Tornata la quiete.

Fatta pace col senzainfamiasenzalode amico del propretario del pub amico di Pofka e Martino.

Uscita la coppia senzainfamiasenzalode-biondina.  

I due amici continuano a discorrere.

Martino: “Caino e Abele.”

Pofka: “Caino e Abele. Li posso percepire con chiarezza nel mondo. L’uomo di successo è necessariamente Caino. Chi ha successo non può nella sua storia non avere usato ‘cattiveria’, che è in assoluto efficace alla sopravvivenza.Abele, inteso come chi rifiuta sempre il male, perisce. E’ il più debole, non godrà della sua famiglia e della dolcezza delle donne sensibili e timide, che mai si esporranno.Caino sì. Caino farà una famiglia, prenderà con prepotenza e sicurezza la donna, strappandola a qualche Abele timido e incapace di agire. Avrà figli da cui sarà amato. Sarà leader di gruppi di cui sarà stimato e che lo narreranno alla storia come un uomo capace e di valore. Vivrà abbastanza a lungo per diventare il buono, cambiato dall’amore, oppure solo per la storia: morirà come Ser Ciappelletto, santo per i posteri”.

Martino: “Perciò, la storia la fanno i Caino”.

Pofka: “Sì. Gli Abele, timidi, introversi, emotivi, sensibili, gentili e premurosi, incapaci di agire, moriranno soli e sconosciuti. Al massimo, subiranno la storia e ne saranno modificati in uomini acidi e rancorosi. Disillusi e senza amore. Moriranno da Caino agli occhi del mondo”.

Martino: “Perciò non c’è spazio per il bene in questo mondo?”

Un nodo difficile da  sbrogliare.

E con questo nodo si salutarono, e andarono a dormire. 

Sono le quattro del mattino. Pofka sta dormendo ormai da un’ora. All’improvviso sente il telefono squillare.

Martino: “Eureka.”

“Che c’è?” rispose assonnato e pacioso Pofka, riconoscendo la voce di Martino.

….

Un attimo di silenzio e Martino esordì:

“Ma come puoi definire uno, ‘Abele’, con certezza?”

Aspettò un attimo, e un pò confuso Pofka iniziò a parlare: “Ad esempio io, penso con pietà e compassione a tutte le persone deboli che subiscono l’invadenza…la prepotenza dei più forti. Ho simpatia per il più debole. Non agirei mai con forza nei confronti di un debole e piuttosto di calpestargli i piedi, me li farei calpestare….”

Martino: “Ma non è umano! Non puoi andare verso il dolore consapevole. L’uomo rifugge il dolore. Essere buoni non lo puoi volere. Finiresti per non fare male agli altri, ma, su tutti, distruggeresti te stesso. E se siamo figli di Dio, stai facendo male a un figlio di Dio. Potresti dire che sei buono nel pensiero, vivendo nell’ideale, ma nell’azione puoi far male. Esattamente come me che sono più pratico. Ma non lo saprai mai. Mentre potrei dirti, che io, che penso a volte cattiverie, ho agito bene in alcune situazioni. Tu rifuggi il fango per principio, “che è male” giusto? perché sei abituato al bene. Ma non è detto che quando, rifiuti ciecamente il fango, ‘pulendoti’, non lo rigetti in faccia agli altri. Non è detto che non risulti fonte del loro male”.

Pofka: “Ho capito.”

Martino:  “Bisogna agire, secondo ciò che si ritiene giusto, consapevoli che siamo limitati”.

“Occorre essere come bambini”. Rispose Pofka ormai del tutto sveglio e pienamente partecipe della nuova discussione.

Martino: “Già, ma il concetto è che essere bambini non significa essere buoni. Fare e pensare sempre la cosa buona,  non è così. Non lo è. Essere come bambini significa lottare, piangere, gridare per ciò che si vuole, che si crede giusto. Con la propria limitata visione. Non pensare al tutto, al destino..a chi è buono e chi è cattivo..Sono pensieri di Dio. Occorre agire, all’interno del tuo piccolo mondo e cercare il meglio..del “qui” e dell’ “ora”, per il tuo piccolo mondo”.

Pofka: “Già. Il bambino non vive nel passato, ne nel futuro, il bambino cerca sempre il modo migliore..in quel momento, in quella situazione”.

Martino: “L’essenza più vera è quella del fanciullo, che crescendo ci fanno credere di dover abbandonare. E quando sarai come un bambino, non vivrai nel passato ma nel presente!”

 

Mezz’ora dopo..Questa volta è il telefono di Martino a squillare interrompendogli il sonno. 

“Li ho sognati”.

Ovviamente era Pofka.

“Chi?” rispose assonnato ma pacioso Martino.

“Caino e Abele”.

“davvero?” disse Martino ridendo felicemente.

“Sì. E si abbracciavano”. Rispose altrettanto felicemente Pofka.

“Abele diceva ‘Ti prometto che non ti farò più pesare la saggezza e il mio idealismo, e proverò ad imparare da te ad essere più pratico’. E Caino gli rispondeva  ‘Ti prometto che cercherò di insegnarti la praticità, e di imparare da te ad essere più altruista’. Alla fine, ‘Ti voglio bene Caino’, ‘Ti voglio bene fratello mio’.

 “Notte Martino”

“Notte Pofka”

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MI CHIAMO EMILY

Vorrei condividere questo pezzo con tutte le persone che si sono sentite “diverse” in qualche momento della loro vita. 

Mi chiamo Emily, sono una sociologa di origini tedesche che vive a Istanbul da tre anni.

Ho vissuto in diverse città d’Europa e ne ho assorbito la cultura.

Mi considero una delle tante donne occidentali cresciute con un vuoto di verità e spiritualità che nè solo le fedi religiose nè le sole dissertazioni filosofiche potevano colmare.

Avevo un vuoto fatto di ricerca, tenuto aperto da una chiara e onesta ostinazione nel sapere chi fossi.

L’amore per la verità mi impediva l’accesso alle convenzioni sociali che spesso tengono in piedi le scelte umane e le equilibrano.

Così, sono passata da un lieve disagio percepito a pelle ad una chiara preoccupazione di non appartenenza.

E ho scoperto nei miei problemi individuali, un tentativo di risposta generale.

Già perchè ho pazientato, ho ricercato e infine ho scoperto di non appartenere ad un’intera cultura.

Ho capito che l’identità di un individuo non è slegata da quella di un gruppo, ma che spesso ne subisce orientamenti e delimitazioni.

L’idea di essere diversi da quello che sembra essere diventato il tuo ruolo in quel luogo, è percepito come un dramma. Qualcosa di esagerato e da fuggire. Perchè in fin dei conti l’equilibrio che portano con se l’appartenenza e la somiglianza, mette in luce la verità della diversità come una scelta sconveniente.

Perciò si accetta di vivere con un lontano e costante disagio, ma con la sicurezza di non esser soli. Almeno, esteriormente.

Ma io credo che ogni uomo abbia una sua vocazione e che sia suo dovere agire per riconoscerla. Capire che quel disagio provato non è obbligato e non costituisce la vita. Anzi, addirittura, che se noi soffriamo privatamente, agire per stare meglio è un dovere sociale. Perchè non possiamo stare bene se tutti non stanno bene. Cioè, se non diventiamo la persona migliore che possiamo essere.

Presto ho capito che da sempre esistono espressioni, modi, interpretazioni dei gesti umani e dei traguardi della civiltà, che variano e che risultano relativi se visti in “lontananza”.

Occorrerebbe viaggiare, confrontare diverse società, diversi modi di esprimere le stesse esigenze e i differenti modi a cui in diverse parti del mondo si è giunti per risolverle.

Così da comprendere che al di là degli strumenti e le interpretazioni umane quello che rimane è appunto l’esigenza.

Mi sono perciò portata in un posto dove potessi agire in sintonia col mio essere senza dovere fingere una maschera.

A poco a poco i miei pensieri trovavano aderenza con la realtà. La gente vedeva ciò che io vedevo, e nella loro storia raccontavano ciò che io avrei raccontato. Mi sono sentita finalmente di appartenere ad una umanità. A poco a poco mi sono riconosciuta sotto la maschera che portavo e ho ritrovato me stessa.

La maschera ti da chiare caratteristiche. Pregi riconosciuti. Limiti, altrettanto riconosciuti.

Ti dà la possibilità di scegliere chiaramente ciò che si può e non si può fare.

Inoltre, quanto più è chiara e unica, tanto più sono limitate le possibilità, ma chiare le scelte che dovrai fare. La maschera è semplificativa di un idea, un insieme di caratteri ed è univoca. E’ un univoca affermazione sulla realtà.

Io ad esempio, ho una cugina, e anche lei si chiama Emily.

Quando ci ritrovavamo a casa dei miei nonni, mi ricordo che mia nonna quando aveva bisogno di prendere qualcosa dalla mensola della cucina mi chiamava per aiutarla. Per distinguerci, quando entrambe le rispondevamo, specificava scherzosamente “the longest”, perchè tra le due io ero la più “lunga”.

Agli occhi delle altre persone siamo spesso maschere, ed è un dato di fatto.

Più è la sintonia e l’amore, più abbiamo la possibilità di attenuare ed eliminare queste maschere. Ma semplificare, generalizzare, ritagliare alcuni aspetti e focalizzarci su altri è sempre una tendenza a cui noi tutti ricorriamo quando si tratta di rapportarci l’un l’altro.

Certo è che se dopo tanto tempo uno si toglie di dosso la maschera, diventa davvero difficile agire. Tutto diventa possibile. Perchè mille diventano le sue facce, mille le interpretazioni della realtà, e quindi mille sono le possibilità e mille le scelte.

E’ come un volo. E l’aria tra le ali deve certo terrorizzare.

Dunque che fare?

Occorre andare oltre l’idea delle sensazioni e percepire le sensazioni.

Occorre andare oltre le categorie.

Di fronte ad una donna che ti spiega con gli occhi tristi di quanto sia innamorata del suo uomo, andare oltre l’idea che ti stia mentendo e riuscire a sentire una persona a disagio.

Quando ci si toglie la maschera è terribile affrontare la realtà perchè nulla è più chiaro. Nulla è più chiaramente univoco, ma tutto diventa una personale scelta.

Anche decidere se un temporale sia l’ombrello dimenticato a casa o il freddo sulla pelle. O l’indirizzo perso del tuo unico contatto in una città che non conosci. Sta a te farlo.

La maschera ci culla, togliendoci la libertà, ma dandoci certezze. Codificazioni chiare di una realtà infinita.

Nella mia vita ho incontrato persone simili a me che erano bloccate, avvolte in fantasie culturali lanciate contro di loro da chi proprio non poteva capirli nè, in fin dei conti, voleva accettarli.

E’ come vivevere in una tana. A volte esci. Ma non la lasci per sempre. Ci stai vicino e ci giri attorno. Fai pochi passi e quando c’è qualche cosa che ti crea difficoltà ti ci reinfili subito.

Anche se sei libero, non lo sei. Perchè il tuo istinto è quello di reagire alle cose da dentro la tana. E’ il tuo unico modo di vedere e rapportarti al mondo.

Non sai come vivere negli spazi liberi della vita.

Sopportare il freddo, la vista dei maestosi alberi, contenere l’eccitazione quando indovini da che parte volterà il sentiero mentre ti lanci al galoppo e ti riscopri abile.

Ma la verità, è che la tana è dentro di noi.

In fin dei conti ogni uomo ne ha una e vive assieme agli altri in una più grande. E’ come il mito della caverna di Platone, dove gli uomini non possono che guardarne il fondo su cui sono proiettate le ombre.

Quelle ombre non sono altro che quelle degli altri uomini.

Credo che non ci guardiamo direttamente. L’unico modo di conoscere è conoscere se stessi e comprendere l’altro solo attraverso la similitudine con ciò che abbiamo imparato di noi.

Non sappiamo cosa ci sia fuori nè dalla nostra tana nè da quella  in cui tutti viviamo.

Ma alcuni tendono a buttarsi fuori, altri a rinchiudersi dentro.

Alcuni, ciò che vedono devono conoscerlo, analizzarlo e capirlo fino in fondo. Mentre altri per capire, per analizzare devono prima agire, toccare e sperimentare. Alcuni, stanno nella tana, ammantati da un invincibile calore, affascinati da una promessa di infinita possibilità. Altri si gettano fuori e vagano soggetti alla miriade di sensazioni.

C’è chi per natura si leva la maschera. C’è chi la costruisce, la mantiene e la fa indossare.

C’è chi per natura torna nella tana anche quando non c’è più minaccia. C’è chi ne esce sempre e tenta sempre di far uscire gli altri dalla loro.

Come l’elettrone che gira intorno al suo asse in due versi opposti, così l’uomo alle domande della vita può chiudersi in se stesso o buttarsi fuori.

Eppure occorre trovare l’equilibrio di questi due modi così legittimi e così necessari.

Da tana e da praterie se fossimo animali, questa sarebbe l’irrimediabile distinzione. Ma siamo uomini e oltre la tendenza naturale abbiamo la volontà di migliorarci e agire per il giusto.  

 

Togliere la maschera, avere il coraggio di essere nudi quando l’amore ci cerca. Buttarsi fuori dalla gabbia quando la risposta alla nostra sofferenza è una sensazione. Gettarsi dentro se stessi, quando invece la soluzione ad una sensazione è un idea. In un continuo equilibrio fluttuare tra le possibilità, scegliere e delimitare le proprie azioni, poi ancora fluttuare e ancora scegliere.
Tutto questo si chiama vivere. E tutto questo è materia di vita.

Ho capito che siamo qualcosa, oltre le aspettative di chi ci è attorno, dietro le paure che ci modificano, oltre l’ignoranza in cui viviamo, verso l’esperienza che ancora non abbiamo.

A volte dobbiamo fare un’azione a volte partorire un’idea. A volte di fronte al giudizio esterno dobbiamo rivolgerci in noi stessi e resistere alla tendenza di reagire. Altre dobbiamo reagire e resistere alla tendenza di rivolgerci in noi stessi.

Eccovi quindi questi i miei scritti.

Con pregi e difetti, con zone buie in cui trovar calore e spiragli da cui vedere il cielo.

Questi amici cari, sono gli anfratti della mia tana.

EMILY KARNAK “LONGEST”

Pubblicato in Due

L’HARDWARE, IL SOFTWARE, IL MONDO, L’UOMO. E LA PAZZIA.

Questo pezzo scritto nel 2007 lo dedico a tutte le persone affette da ludopatia. Con grande affetto.

Ho il pensiero che sia tutto un teatrino. Quello dell’uomo e i suoi affanni. I problemi della gente, dei più sono convenzioni, assunzioni. Sono speculazioni superficiali di niente.

E’ come se vivessimo in una sovrastruttura finta.
E’ come se ogni uomo fosse un dato e non un manipolatore di dati.

Vive una finzione, è calato in una realtà di software e ignora l’hardware che ne è la base fondante. La gente che odia, grida per strada, che uccide, non si rende conto che in realtà agisce in funzione di spinte più profonde, che la loro vita è mossa da motivazioni inconsce, invisibili, e che se solo percepissero la sottostruttura dei loro sentimenti, delle loro azioni, delle loro vendette, queste cose perderebbero valore.

D’altra parte la loro vita non potrebbe essere diversa da quello che è perché loro hanno un programma che li fissa in una sovrastruttura globale, finta.

Mi accorgo di questo. E’ così chiaro ai miei occhi. Gli ultimi saranno i primi, vuol dire: chi sarà contrario a queste convenzioni della società, chi si ribellerà a queste finte realtà, sarà emarginato in vita, ma lui andrà dritto nel cuore delle cose, negli ingranaggi del tutto, lui coglierà la verità. Scavalcherà il software e si calerà nell’hardware. E’ rischioso, si può fallire.

Ma il fallimento non significa morte fisica. Significa pazzia. Rottura del software personale.

Mettiamola così, ognuno di noi ha un software personale che gli permette di interfacciare con le altre persone e inserirsi nella società, il grande software globale, svolgendo un suo ruolo, riempiendo una sua posizione.
Poche persone, rifiutano il software e si spingono fino alle strutture hardware della realtà. L’hardware della realtà è il perché. Il software è il come. E così è anche per l’uomo. Non so se tutti riescono ad avvertire la sottostruttura hardware di tutte le cose, ma questa esiste. E se l’hardware si rovinasse, Il software come si modificherebbe? La pazzia centra qualcosa con questo? Cos’è la razionalità? Come funziona il cervello? E’ un sistema fisico, con una sua struttura specifica. Se la struttura viene modificata cosa succede a livello razionale. Io da fuori cosa vedo?

E un pazzo è un dannato? Non si può più recuperare? E’ arrivato nell’inferno? Oppure è pazzo dal punto di vista razionale, ma c’è ancora qualcosa di integro, che gli conferisce dignità, nonostante sia inutile alla società, e anzi alle volte sia una grave minaccia alle regole sociali?

Mi pare di avere sentito che il cervello funziona per una serie di tanti impulsi elettrici che ci fanno sentire e fare. Ci sono addirittura delle attività elettriche legate al sentimento dell’ euforia, dell’ansia, e la schizofrenia pure può essere legata a problematiche di tipo fisico del cervello.

E’ come un puzzle l’interfaccia software personale. Quella che ci lega agli altri e che ci inserisce nella società. Quando questa interfaccia si rovina, noi facciamo cose pazze, siamo difettosi:
“Molti pensano di voler ammazzare il capoufficio, il figlio indisponente, il padre ossessivo, la ragazza gelosa, il compagno di classe perfettino, ma è pazzo solo chi lo fa”. La società ammette che vi siano difetti dell’hardware, tanto non si vedono. L’importante è che non vi siano grane di interfaccia.

E se c’è un solo pezzo di puzzle mancante su milioni che compongono l’interfaccia? Un solo pezzo difettoso? Tu funzioni normalmente tutte le volte che non ti toccano quel tastino lì. E la probabilità è bassa, cazzo un tastino difettoso su milioni. Uno solo. Ma anche se fossero cinque, dieci, venti, sarebbe sempre una probabilità bassa. Ma se ti tocco quel tasto tu diventi un animale. Esce bestialità pura.
Così si chiama in natura questo livello hardware.
Io ti tocco quel tastino e tu mi ammazzi. Basta una cosa che non so per farti abbattere l’interfaccia razionale e farti emergere l’hardware.
Cazzo ma allora chi ha l’interfaccia difettata è pericoloso.

Ed esistono diverse tipologie di interfaccia in natura? Certo.
E per natura ce ne sono alcune più fragili delle altre? Dicono di sì.

C’è chi è più portato di altri ad impazzire? Per esempio chi ha una sensibilità particolare e un’abitudine alla riflessione e all’introspezione, rischia di accusare colpi più forti, e di intaccare il suo software più facilmente? Questo mi sorprende. Mi angoscia anche.
E i pazzi? I pazzi? Dico, noi non li capiamo e loro non riescono a farsi capire, ma dentro di loro c’è quella persona che erano? Intendo dire, c’è, dentro di loro, che sono pazzi, un loro sano intrappolato? O quelle persone sono irrimediabilmente compromesse? Del tutto e irreversibilmente perse, distrutte?