IL PIONIERE

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Scritto a quattro mani con Domenico Gemelli. 

1.
Il mattino era giovane e fresco e speranzoso.
L’aria sulle guance tenere del ricercatore faceva il solletico al collo libero dalla barba, che insieme ai folti e riccioluti capelli vibrava nel vento. Camminava. E il tempo, bello, tradiva un freddo acuto. Ma nemmeno tanto. La pelliccia faceva il suo dovere così come il cappello e i mocassini di tasso. Fiumi, boschi, montagne, laghi, rocce, alberi, prati, vento, sole, pioggia, neve, terra, fuoco. Camminava, camminava, camminava quasi sapendo con certezza la strada da fare. Perché la ragione lo indirizzava sicura verso il destino del mondo, uguale al suo.

Fu ad un tratto che si rese conto di sentire un pianto, un lamento. Come un grido di dolore di un neonato. Corse piano verso la fonte che divenne uno strano stimolo per le sue orecchie. Corse come dannato. Disperato quando si intensificò l’amplificazione ai suoi timpani. Si fermò di colpo sulla cima di una collinetta erbosa che un vento gentile ma sicuro batteva dall’origine del tempo.

Si fermò lì in silenzio immobile e infastidito terribilmente dai compatti esili ciuffi d’erba su cui gravava il peso dei suoi piedi. Calpestati e incitati dal vento, i fili verde acceso, battevano con foga le caviglie dell’uomo. L’uomo stette lì immobile. Poi, improvvisamente, si mosse.
E mentre scendeva a valle non credeva ai suoi occhi. Più si avvicinava, più metteva distanza tra se e quei ciuffi verdi, e più rimaneva basito.
Fu all’improvviso che si trovò sopra quella piccola causa di tale lamento, che con gli occhi sgranati e la bocca aperta lo perpetuava petulante. Gli fu sopra e tutto gli apparve in bianco e nero.

Un bellissimo aquilotto, completamente solo, pigolava disperato.
Il ricercatore sorrise al ciuffo pasticciato e sconvolto di quel piccolo principe guardandolo dritto negli occhi. Aspettò qualche momento per vedere se giungesse la madre, ed era pronto a fuggire veloce. Ma niente accadde. Allora rise. Pensando che se non fosse stato per lui quella bellissima creatura in quello stesso giorno, che sembrava con tutta probabilità il giorno della sua nascita, sarebbe anche sicuramente morto. Rise di un sorriso paterno e benevolo. Prese con se il piccolo pennuto e da quel giorno lo allevò.

Diventata grande, l’aquila volava per osservare dall’alto il territorio e tornava ad informare il ricercatore. I due comunicavano con un linguaggio fatto di sentimenti e fiducia. Il ricercatore, riusciva a vedere negli occhi dell’aquila i branchi di leoni che riposavano all’ombra, larghi e tumultuosi fiumi difficili da guadare, le insidie improvvise degli strapiombi o l’infittirsi di alberi e di erba alta e folta. Così, da quello che leggeva negli occhi di quella fedele compagna, sceglieva con intelligenza il percorso da intraprendere. Quando l’aquila volava, rimaneva fermo e l’aspettava. L’aquila, quando il ricercatore si metteva in cammino, pazientava e placando il suo istinto rimaneva immobile su una spalla del suo protetto. Il ricercatore si fidava dell’aquila e quando si fermava a bagnarsi nei ruscelli durante il viaggio non doveva controllarla perché sapeva che lei sarebbe stata sempre là ad aspettarlo e quando invece riprendeva il cammino interpretava il percorso, fiducioso delle informazioni lette negli occhi della sua amica.

Un giorno, il ricercatore incontrò nel cammino un bellissimo cucciolo di cavallo di cui subito si innamorò. Ovviamente, affinché potesse adottare il puledro, il ricercatore doveva essere certo che l’aquila non ne fosse disturbata e che dunque non volasse via. L’aquila infatti, era diventata fondamentale per il ricercatore. D’altronde, quando il piccolo puledro fosse cresciuto, il ricercatore avrebbe potuto cavalcarlo e raggiungere più velocemente e agevolmente i posti che l’aquila gli avrebbe di volta in volta indicato. Dunque, il ricercatore prese con se il cavallo e lo crebbe facendolo abituare all’aquila e viceversa, insegnando alla fedele regina del cielo a non aver paura del quadrupede.

Diventato grande, il cavallo a volte galoppava forte e potente, mentre il ricercatore, avrebbe voluto mantenerlo ad una certa velocità. Altre volte, doveva impegnarsi con grandi sforzi e concentrazione a tenerlo fermo immobile quando l’aquila era in perlustrazione o quando sceso a piedi, perlustrava lui l’area. Poi, a volte, quando il cavallo galoppava, o il ricercatore scendeva a camminare, capitò che anche l’aquila desse cenno di non essere in sintonia con le decisioni e le esigenze del cavaliere. Così che, l’aquila, in piena corsa faceva brevi ed improvvisi voli che costringevano il cavaliere a fermare bruscamente il cavallo o a trovarsi in situazioni di pericolo nel mezzo di sentieri delicati.

2.
Sole e luna, in uno sfiancante inseguimento senza fine, si avvicendavano nella profondità del cielo a volte liscio, a volte ghiacciato, ora nero, ora rosso, ma sempre presente. Eterno.
Quel cielo che li guardava dall’alto li inseguiva giocando coi loro destini. Mostrava la sua presenza regalando giornate in cui i tre compagni potevano godere del sole e della fresca brezza mattutina. Altre in cui costretti dalla potente pioggia rallentavano il loro cammino concentrandosi sulla ricerca di un sicuro riparo asciutto.
Passò del tempo, ma i tre compari non se ne accorsero, presi com’erano da ora una, ora l’altra preda, l’uno o l’altro bivio, l’uno o l’altro viandante che incontravano giorno dopo giorno nel loro cammino. In un equilibrio costante tra l’istinto, la fortuna e la ragione, intenta a discernere ciò che si poteva e ciò che non si poteva raggiungere.
Questo equilibrio, fino allora, li aveva spinti così lontano dalla originaria terra natale, principio della loro esistenza.
Ancora passò del tempo. Ma ci fu un giorno in cui il ricercatore sembrò accorgersene.
Arrivò un istante in cui si guardò improvvisamente intorno. Mentre l’aquila volava alta su di lui compiendo maestosi giri. E il cavallo che montava, viaggiava spedito come una locomotiva impazzita.
In quell’istante al ricercatore sembrò che il mondo si concentrasse tutto in quella prateria che gli zoccoli del cavallo scalfivano rabbiosi. In quella prateria che scendeva e risaliva in una serie infinita di grandi e piccoli avvallamenti che si scontravano, in lontananza, più in basso alla sua destra e sinistra, con le meravigliose macchie di leopardo dei boschi.
Anche la lontana montagna, quel complesso roccioso azzurro, viola e arancione che dovevano superare, gli sembrava fare parte del suo mondo. Eppure, era di certo il limite di un altro mondo, altre praterie, altri sconfinati avvallamenti, che si confondevano tra gli alberi di altri boschi, al tramonto, sull’orizzonte.
Solo la fiera aquila che dall’alto, sicura di sé, precedeva il forte cavallo e il suo coraggioso cavaliere sembrava riuscire a comprendere con indiscussa certezza le reali distanze di quell’universo infinito.
In quell’istante, nell’istante in cui la percezione del ricercatore fu quasi in balia del galoppo forsennato.. in quell’istante in cui la sua vista sintetizzò quel panorama scorrevole in sottili linee orizzontali parallele bianche e rosse…
In quell’istante, il ricercatore capì che la ragione della sua ricerca non era la brama di fama o gloria. O conoscenza di terre lontane e ancora sconosciute. Quello che fin’ora aveva certamente cercato era se stesso. La brama che lo bruciava era la brama di raggiungere il possesso della sua natura.
Ma qual’era la sua natura?
In quell’istante.. intuì anche di colpo qualcosa che lo sconvolse e lo mortificò.
Intuì pensando proprio alla natura di quei due animali così perfetti. Che egli aveva preso nel suo cammino e che ora usava quotidianamente. Essi, se pur apparentemente differenti, lo avevano illuminato della stessa luce della verità.
Le anime delle due bestie, come grandi e possenti rami che toccano spicchi di cielo differenti guardando a nord o sud o anche ovest ed est, erano figlie del medesimo tronco. Quel tronco, quella base, quell’origine comune altro non era che l’istinto più nero e profondo. L’istinto prominente che li dominava.
Era quello contro cui aveva combattuto per lungo tempo per assoggettarli al suo volere.
Il ricercatore si sentì triste. Di una tristezza senza rimedio. Un malessere vuoto e senza nome che lo colpi al cuore.
Fu allora che il giovane e forte cavallo, come quasi riuscendo a scrutare nell’animo dell’umano amico, rallentò inizialmente pian piano la sua corsa. Fino, in seguito, ad interromperla. Perché in quel momento il cavallo capì. L’aquila rapace fece un grido.
Un altro, ancora più acuto e terribile lo seguì. La risata isterica della regina dei rapaci non riuscì tuttavia a interrompere il pensiero del pioniere che continuava come un fiume a fustigare il suo cervello.
Il suo problema: la sua ragione.
Egli era nato per essere schiavo perché il suo istinto, era schiavo.
Niente di più crudele era che essere schiavi di se stessi. Perché la ragione che sottomette l’istinto, l’artificio che domina la natura, erano per lui motivo di lancinante fustigazione.
Fu arrabbiato poi quando pensò che la sua condizione schiava era anche l’unico motivo di repressione della bellezza naturale della vita intera.
Nella sua schiavitù aveva trascinato cavallo e aquila, che diversamente da lui, erano nati per essere liberi e mai oppressori di quel mondo di cui facevano a pieno parte.
Questi erano i suoi pensieri.
Si vide così come “lo schiavo padrone che rende schiavi i liberi”.
Questa, la sua confusa conclusione.
Quando queste spaventose idee si resero chiare nella sua mente era ormai buio.
Il fedele cavallo, dal quale era sceso, restava fermo immobile a lui vicinissimo, sotto un grosso sanbuco bianco. Lo osservava preoccupato come quasi nemmeno un amico ubriaco fa, con l’altro amico, pure ubriaco.. Sbigottito il confuso bipede, fece finta di abbassare il collo con la scusa di seguire un gustoso filo d’erba…in quel momento inesistente.
L’aquila, muta con lo sguardo arcigno aspettava sul ramo.
Quella notte nemmeno una stella a illuminare il cielo.
Tutto a un tratto il ricercatore si mise a correre o meglio si lanciò selvaggio. Pazzo e selvaggio.
Si lanciò in una spaventevole corsa.
Libero, animale.
Fuggì. Abbandonò il puledro e la sua aquila e fuggì.

3.
Passò la notte e si fece mattino, ma ancora un pò buio. Le nubi minacciose coprivano il cielo e la pioggia che già bagnava il sotto svegliò il sonno del maestoso equino che subito sbuffò un leggero nitrito.
La pioggia grigia iniziò a cadere fittamente dritta e un altro sbuffo servì da sveglia ad un corvo che aveva preso il posto dell’aquila sul ramo dell’albero durante la notte. Cavallo sbuffò un altro nitrito, più forte questa volta. Rimase fermo sotto l’enorme sambuco bianco fino a quando non si accorse delle altissime ali della compagna volante che virò in una lenta picchiata giungendo ad appollaiarsi li vicino.
Entrambi si fecero compagnia.
Passò quel giorno così. E molti ne seguirono senza che il cavallo abbandonasse per un solo istante quella che era divenuta ormai la sua casa, l’aquila invece volava alta senza ripetere mai lo stesso giro ma sul finire del giorno sempre tornava a fare compagnia all’ormai unico amico che gli rimaneva.
Era allora che i due si guardavano dritti negli occhi per parlare. La natura li aveva dotati certamente del linguaggio muto della mente e i due esseri sembravano interpretarlo alla perfezione.
Ogni volta però il loro dialogo si concludeva con un silenzio, vero questa volta, che durava tutta la notte e tutto il giorno successivo fino al tramonto.
Era allora che l’aquila scendeva e il dialogo poteva ricominciare per terminare sempre allo stesso modo: silenzio.
Neanche l’aquila era riuscita quel giorno dall’alto del suo regno a intravedere con i suoi acutissimi occhi dove aveva concluso la corsa l’ormai perduto vagabondo. Non poteva o forse non voleva. Il cavallo pensava questo e mille altre cose che sempre, ogni notte, riferiva all’amica pennuta. Il tempo passava e ora lo si intuiva prepotente. Sembrava che fosse veloce il doppio del normale quasi a volersi riprendere beffardo, il tempo già trascorso e mai accusato. Ma si è giovani una sola volta e il cavallo pian piano subiva un ritorno ai suoi istinti più originari, che mai aveva imparato a conoscere perchè da subito era stato allevato dal cavaliere.
Ricordò innanzitutto che l’aquila, che il cavaliere gli aveva insegnato a tollerare, le era sempre stata antipatica. E ora lo percepiva ancora chiaramente. Lo aveva dimenticato per amore del suo cavaliere, ma le era sempre stata antipatica. Per natura.
Trascorse molto tempo e dopo altrettanto tempo che per una strana inerzia innaturale spese bloccato sotto quel sambuco bianco in cui lo aveva lasciato il suo vecchio padrone, arrivò un momento in cui prese a vagare. Ancora libero. Nelle praterie sterminate.
Passò del tempo e infine aveva completamente raggiunto la sua vera natura di libero figlio della terra.
Andava al fiume, se gli andava, correva, se gli andava.
Viveva se gli andava.
L’aquila lo guardava dall’alto e lo stuzzicava terribile. Non lo abbandonava mai. E da quando il cavallo aveva abbandonato il sanbuco bianco e aveva preso ad errare libero era sempre con lui. Nell’alto dei cieli.
Gracchiava. Planava, girava, si lanciava in picchiata. A volta cacciava, altre esplorava, si spingeva in cieli nuovi e prima sconosciuti, ma poi tornava dove il suo amico equino si fermava a riposare la notte.
Lei non si era mai dimenticata, diversamente da quanto aveva fatto il cavallo, delle avventure trascorse insieme. Si ricordava ancora quei lunghi disperati inseguimenti ma ora, senza più il ricercatore gli sfuggiva qualcosa: il perchè.
Perchè lei e lo strano essere mangiaerba erano un tempo stati così amici. Qualcosa gli sfuggiva.
Ora pensava solo che fosse così strano!
Niente mai gli sfuggiva se non era lei a volerlo. Anche lei come il cavallo aveva dopo tempo imparato ad abbandonare il sanbuco e riacciuffato la vita. Che continuava anche senza il suo vecchio compagno umano.
Aquila volava, cavallo correva, lontani mille miglia o l’uno sotto l’altro la vita continuava, libera come sempre.
Fino a che..
Un giorno, la formidabile cacciatrice vide qualcosa.
Qualcuno.
L’uomo.
Subito ricordò tutto. Comprese lo strano affetto non ricambiato che nutriva per l’equino. Ricordò che un tempo, lei era gli occhi di un umano mentre quel semplice ma potente quadrupede, le sue potenti zampe. Guardò quell’umano senza pelo fare il bagno nel torrente ma non riusci a capire con certezza se si trattava del suo vecchio: gli umani gli sembravano tutti uguali.
L’umano dai lunghi cappelli grigi e dalla folta barba nera, si tuffava e riemergeva dalle acque come un vecchio stupido delfino. Si alzava su due piedi e tirandosi i capelli indietro sputava gocce di fresca acqua sorgiva. Si rituffava e riemergeva.
A pelo d’acqua, rivolse i suoi occhi fradici verso il cielo e vide un miraggio.
In lontananza la grande aquila virava e girava come l’avvoltoio sulla carcassa.
La sua vecchia aquila. Era uguale a nessun’altra.
Era contento.
Fece un grido basso, a salutare la vecchia amica che aveva ritrovato. Anche l’aquila gridò, e il suo grido si unì con quello del suo padrone. Uno stridulo fischio come solo lei sapeva fare in un animalesco sbraito che facevano un suono strano e unico.
All’aquila parve di provare paura. La prima volta nella sua vita che un sentimento, un emozione così disperata l’avvolgeva minacciosa e misteriosa.
Del resto, non sapeva cosa fosse la paura. E ne ebbe più paura.
Anche il cavallo, lontano, lontano, lontano, capì. Sentì che c’era un vecchio amico non molto lontano.
Alzò la testa al cielo e iniziò a correre.
Il ricercatore, vagabondo, cacciatore salutava felice con i grandi movimenti semiarcati delle braccia.
Aveva fatto quel bagno almeno mille da che aveva abbandonato i suoi compagni di viaggio animali.
Mille volte era andato a caccia di cervi, mille volte aveva acceso il fuoco di notte.
Aveva lottato con orsi e lupi e sempre era riuscito a spuntarla. Era sopravvissuto per osservare le stelle luminosissime della notte selvaggia. .
Era passato molto tempo dal giorno che si era destato dal lungo sonno della civile costrizione e che aveva sentito che una nuova vita lo stava aspettando da qualche parte. Che lo stava aspettando già da molto tempo e che egli, rinvigorito da una nuova coscienza, non l’avrebbe più fatta attendere. La vita.
Dal giorno in cui trovò improvvisamente la libertà fuori da ogni città. Prima solo, poi con l’aquila poi in groppa al suo cavallo.
Era passato molto tempo anche da quella notte in cui si riscoprì uomo figlio della terra.
In cui aveva lasciato il cavallo e l’aquila del cielo. Da quella notte in cui il freddo si faceva sentire forte e il cielo se pur scuro scuro sembrava ai suoi occhi finalmente chiaro. Illuminato dall’istinto. Nulla in quell’istante di quella notte, gli sembrò più importante del suo istinto. Neppure lo sguardo intenso del cavallo che timidamente l’aveva guardato con gli occhi di chi, se fosse stato un uomo, sarebbero stati sicuramente quelli di chi domanda silenzioso cosa stia succedendo.
Perché sì era reso conto che nemmeno un giorno prima di quel momento aveva vissuto. Goduto a pieno. Vissuto. Niente. Tutto.
Tutto. Perché lasciò lì tutto. Quella notte.
Sotto l’enorme albero al quale aveva stretto la lunga corda che legava il suo tenero e forte destriero.
Sotto la volta nera nera che sembrava rappresentare perfettamente il suo animo. Quella notte.
Perché niente, il tutto devono essere neri neri.
Come quella notte.
Gli era venuta voglia di scalarlo quell’albero. In un’istante, quella notte, gli era venuta voglia di scalarlo.
Per un istante pensò pure di slegare il suo cavallo.
Perché l’istinto va e viene. E il pioniere non era abituato ad assecondarlo. Strascichi di ragione avevano combattuto nella sua mente. Ma poi, niente più.
Corse via. E da quel momento, ne avrebbe scalato di alberi.

4.
Ora, immerso nell’acqua, con il naso in aria e il mento e la bocca nell’acqua, in un altro istante…la verità vive negli istanti… si destò. Tornò in sé, maestosamente incredulo. Ancora. Muto.
Stava pensando.
Aveva pensato.
Terribile. Mille sensazioni lo assalirono.
Strano. Brutto. Cielo.
Sentiva di nuovo il dolore.
Probabilmente, il primordiale dolore dell’uomo che è all’origine di ogni civiltà.
Terribile. Eppure…Vita. Di nuovo.
Il fuoco della notte di stelle.
Confuso. Tutto era come la notte di mille giorni fa quando il ricercatore “visse”.
Ma tutto il contrario: il ricercatore-vagabondo morì e si riscopri pensatore. Senti rabbia, schifo, freddo, violenza, odio.
Sputò forte il veleno.
Sentiva qualcosa dentro se. Una frustrazione che nasceva da una nuova lotta al suo interno. Qualcosa sembrava ripugnare il suo stato. Ma non ne era convinto.
Allora con un gesto che sfidò una parte che lo costituiva, un’altra parte che pure lo costituiva gli fece prendere il coltello e ammazzare il daino che aveva catturato la mattina e che ora si divincolava legato lì pochi metri lontano.
Il sangue lo bagnò. Il suo viso cambiò.
Gli occhi, quegli occhi che finora si erano nutriti della bellezza pacifica del mondo si spensero folgorati nella violenza della natura.
Una parte morì.
In quel momento l’animo umano fatto di ragione prese il sopravvento.
Il ricercatore-vagabondo-cacciatore gettò un’inquietante risata. Folle.
Era l’ultimo saluto dell’istinto animale.
Un nuovo gioco sarebbe ricominciato.
Perché lui era nuovo.
Questa volta conscio di essere Uomo.
Mentre i suoi occhi guardavano la figura del cavallo che correva verso di lui farsi sempre più grande. E sentiva gli urli acuti della sua aquila.
Il ricercatore, neo-pioniere pensò:
“Io non sono l’aquila, ne il cavallo. Il mio compito non è quello di volare nell’aria e vedere tutto dall’alto, neppure quello di bruciare grandi distese con velocità”.
Pensò questo, il pioniere. Si avvicinò al cavallo, lo montò. Gettò un grido all’aquila che rispose, come sempre, unendo a quello umano il suo strillo divino.
E si rimise in cammino.
Questa volta aveva il suo cuore pieno di una nuova fede.
Prese a camminare e proseguì risoluto.
Certo che il cavallo e l’aquila avrebbero ancora una volta aiutato il suo cammino.
Mangiò carne quella sera.
Aveva trovato la sua natura.
Ancora una volta ma per sempre, quella vera.
Finché aveva vissuto da ricercatore, aveva vissuto sì da uomo ma senza capirne il significato. Qualcosa lo tormentava al suo interno, da quando aveva abbandonato la civiltà. Era certo che in essa non c’era il suo scopo, ma poi, nella solitudine della natura, una sfida pericolosa aveva invaghito il suo animo. Quell’uomo tanto sincero quanto forte si era abbandonato ad essa e si era avvicinato alla condizione animale.
Quando era un uomo faceva ciò che facevano gli uomini. Quando si abbandonò alla natura si ritrovò a fare ciò che le bestie senza pensiero, fanno.
Ma ora comprendeva che lui era un pioniere. E che nella sua vita avrebbe dovuto ricercare nuovi mondi, nuovi territori, nuove sorgenti…Che le avrebbe dovute regalare alle civiltà le quali se pur non custodivano il suo scopo, erano fonte di una dignità che accumuna tutti gli uomini…di cui pure si sentiva fortemente e irrimediabilmente, umanamente, parte.
Perché sempre, pure quando abbandonò la civiltà, da ricercatore, non faceva altro che seguire l’istinto, ma non lo sapeva. Curiosamente o fatalmente o stupidamente o chissà cos’altro, nel momento in cui decise, ragionando di diventare ricercatore forse per la prima volta in vita sua, inseguì l’istinto. Non fece altro che inseguire l’istinto con la ragione. Un istinto umano che non vive nella terra ma nel cielo. Un istinto che porta l’uomo a superare il suo stato ed evolvere la sua condizione.
Capì nuovamente e si ridestò per la seconda volta nella sua vita.
La ragione è l’istinto del genere umano.
Vivendo una vita di costrizioni istintive, l’uomo figliodellaterra domina il pensiero mortificando l’istinto.
Si solleva dallo stato di bestia, costruisce civiltà in cui poter vivere in sicurezza e in armonia con i suoi fratelli uomini.
Ma pur sempre, esisterà chi come il pioniere si sentirà spinto fuori dalle civiltà… perché le sue risposte non vivono in ciò che esiste. Nè le sue domande sono mai state formulate.
Il pioniere sempre sarà portato a viaggiare verso domande che non hanno domande, verso i nomi che non hanno nomi. Sarà bruciato da una inspiegabile brama che lo lega a fonti lontane che vivono accese nel suo animo fatto di idee. Questo animo speciale è l’animo di un pioniere. E il raggiungimento di quelle fonti senza nome, è il suo fine.
Capì tutto questo, il neo-pioniere.
E senza parole, partì nuovamente.

LA METAMORFOSI DEL GORILLA

Gorilla scorpione

Occhi profondi, pelo morbido e lucente. E’ appena nato: uno strano lupo.

Robusto e forte, cammina tra i lupi, neonati come lui. Rispettosi, attratti, ma intimamente intimoriti, avvertiti dalla verità della natura; nell’aria sussurrata.

Ecco, un lupo anziano, ringhiare inferocito.

La violenza della storia, caricata dalla sua diffidenza, colpisce e segna.
Stranolupo si ferisce, ma non cade. E’ piccolo, ma reagisce.
Vacilla il lupo anziano, nella mente.

Stranolupo cresce, cammina e cresce.
Gli spunta una strana criniera rossastra tutto attorno al capo e al collo, che lo copre fino alla spalle .

Stranolupo dalla criniera rossastra, cammina e cresce.
Ancora una volta, uno dei lupi , gli si scaglia contro e lo segna con una zampata.
Stranolupo si ferisce, reagisce e questa volta atterra l’aggressore.

Stranolupo dalla criniera rossastra cresce, cammina e cresce.
Le ferite passano, si rimarginano.
Trascorre le giornate a cacciare solitario.

Un giorno, alcuni lupi del branco si portano in gruppo attorno a lui e lo accerchiano.
Lui emette uno strano suono, che fa tremare e fuggire impauriti gli aggressori.

A quel punto il branco è ormai deciso:
spaventato dalla forza di Stranolupo, si organizza contro di lui.

Il giorno stabilito, nuovamente, tutto il branco circonda Stranolupo, e tra questi, uno dei gregari lo attacca.
Stranolupo più forte di un singolo lupo lo atterra. Un altro, e un altro ancora gli si scaglia addosso. Stranolupo li atterra uno dopo l’altro.

Si scaglia contro il muro di animali di fronte a lui e ne fa fuori a decine, ma sono troppi. Lotta strenuamente, ma infine viene vinto.

E’ ancora troppo giovane ed è solo.

I lupi gli risparmiano la vita, ma lo costringono a restare con loro e a partecipare alle attività del branco, a cacciare con loro e per loro.
Stranolupo si ribella per giorni interi..poi, li accetta.
Cresce tra i lupi e ne impara le regole, i comportamenti, i ritmi e con loro si identifica.

Si adatta e si inserisce nel branco. I lupi non disdegnano la sua presenza, tuttavia per loro è importante spegnergli gli istinti, così pericolosi per loro.

Stranolupo finisce per dimenticare la sua natura e col passare del tempo non trova più differenze con i lupi.

Passano anni e Stranolupo vive tranquillo, cacciando e vivendo col branco. Cresce e diventa grande.

E’ un lupo ormai, questo è il suo pensiero, il suo adattamento, ma c’è qualcosa ancora che lo lega al suo passato. Un disagio, una tristezza profonda.

Fosse stato un uomo sarebbe stata malinconia da poeta..

Il tempo passa e Stranolupo iniziò a stare sempre più male: risentiva i cambiamenti che il forzato adattamento aveva imposto alla sua natura. Soffriva.

In lui istinti primordiali riaffioravano e lo confondevano, portandolo lontano dal vivere di branco. Finchè un giorno stranolupò sparì, si nascose per giorni così che nessuno fu più capace di trovarlo. Poi, abbandonò tutti e iniziò a vivere solitario, errando nella foresta.

Un giorno, nella foresta.

“Ei tu, leone”.
Stranolupo non si girò, e un’aquila continuando a chiamarlo si avvicinò a lui, fino a che non gli fu di fronte. Appena davanti agli occhi gli disse: “che ci fai qui leone?”

Stranolupo non capiva cosa stesse dicendo quell’animale e rispose “vola da qualche altra parte corvaccio”
L’aquila sorpresa, volò via.

Stranolupo, infastidito dall’improvvisa invadenza, riprese a camminare riflettendo triste a quelle parole.
Leone?
Cosa significava? e perché gli aveva chiesto cosa ci facesse lì?

Pensava a queste cose quando..
…sentì un leggero fastidio sulla gamba.
Si girò e di scattò si tirò in dietro.

Davanti a lui c’era infatti una strana creatura simile ad un gorilla, ma più piccolo e con una strana coda lunga, senza peli e rossastra, che tutt’altro era men che morbida (Stranolupo l’aveva appena appurato), e finiva con uno strano pungiglione.

La strana creatura gridò: “Eì, guarda dove vai!” agitando la coda.

La coda era solcata da delle linee verticali che si susseguivano creando sezioni bombate e ovali. Stranolupo ricordava qualcosa, ma era confuso, incuriosito da quella forma nuova e sconosciuta.

“Cosa sei?” disse d’istinto.
L’animaletto guardandolo con un espressione buffa, pensoso rispose “cosa sono?..e chi lo sa. Un gorilla.”
“Una specie di gorilla?”
“Sì, credo. E tu? sei un lupo?”
“Sì credo”
“Una specie di lupo?”
“Sì”
“Strana quella criniera sulla testa, mai vista addosso a un lupo”.
“Già..sono uno Stranolupo”

Risero insieme.

Poi il piccolo gorilla dal pungiglione raccontò a Stranolupo la sua storia:
“Mi ricordo di essere nato orfano, e che una femmina di gorilla che aveva perso il suo piccolo, mi allevò come suo figlio”.
“Hai sempre avuto quella?” disse Stranolupo indicando la coda dell’animaletto.
“Sì, sempre. Ero l’unico ad averla nella mia famiglia. Ero il più piccolo dei miei fratelli e l’unico che l’aveva. Coi miei fratelli facevo fatica a starci. A loro non piacevo ed ero il più fragile, ma mi ricordo che mamma mi voleva un gran bene”.

Stranolupo seguiva il racconto interessato e molto partecipe. L’animaletto continuava:
“Io e mamma eravamo molto legati, entrambi eravamo davvero felici di stare insieme, ma presto dovemmo affrontare un problema: io ero troppo delicato rispetto al suo corpo possente e quando lei affettuosamente mi abbracciava, non riusciva a non farmi male e io d’istinto, sempre, rispondevo agitando questo mio pungiglione”.
“Strano pungiglione” rimarcò Stranolupo.
“..e la pungevo” disse lo strano piccolo gorilla dal pungiglione. “Lei mi amava e quell’abbraccio era per lei importante, unico mezzo di trasmissione del suo affetto. D’altra parte io non potevo fare a meno di fare scattare il pungiglione ogni volta che mi abbracciava.
Poiché quando ero piccolo, la puntura del mio pungiglione non poteva fare male al suo grosso corpo, entrambi accettammo di farci un po’ male per amore dell’altro. Ma crescendo il problema si ripresentò. Il mio pungiglione iniziò ad emettere un liquido strano e la mia puntura faceva sempre più male, fino a che un giorno, dopo il consueto abbraccio e la consueta puntura, mia mamma cadde per terra moribonda.
I miei fratelli si scagliarono contro di me, così il resto della famiglia. Io riuscii a scappare e da allora continuo a vagare solitario senza sapere nulla di mia madre. La ricordo esanime a terra.
Per lungo tempo fui gettato nello sconforto e nella piena disperazione. Pensavo al mio pungiglione, l’ho odiato! Pensavo a come fosse stata causa di tanto male. Quante notti mi sono addormentato pensando a come sarebbe stato bello se io fossi stato normale, come i miei fratelli, robusto e senza pungiglione. Proprio come loro. Quante notti ho desiderato di non avere avuto quest’anomalia..Ma poi, passarono gli anni e in me si susseguirono cambiamenti strani, uno dopo l’altro. Diventai sempre più piccolo, i miei muscoli delle braccia giorno dopo giorno stanno perdendo peli e diventano sempre più duri. Sta assumendo questo colore rossastro e mi è cresciuto dentro un vuoto, che mi tormenta, ma mi sorregge”.

“Anch’io avrei voluto vivere bene con i lupi che mi hanno allevato. Essere come loro. Poter accettare la caccia di branco”. Disse stranolupo.
“E’ per questo che il tuo fisico ricorda quello di un lupo? Sei stato allevato da un branco di lupi? ma non sei un lupo”.
Stranolupo gli rispose triste: “non so cosa sono..so solo che sono strano.”
“Non è un male esserlo. Guarda me, a me non dispiace essere così, in qualche modo riesco a fare tutto.”
“..ma io penso che comunque non sia normale avere quelle grosse braccia sproporzionate con questo corpo piccolo..”
“normale…” ripetè pensoso l’animaletto, “guarda”, disse ponendogli davanti agli occhi il braccio destro “sono convinto si stiano rimpicciolendo anche le braccia,..e stanno cambiando,..guarda attentamente”
Stranolupo notò una parte del braccio all’altezza del gomito, senza peli, di un colore bordastro lucente. Di quella che un tempo doveva essere una grossa mano restavano tre dita unite e confuse alla base in un unico corpo e al posto delle altre due c’era qualcosa come una pinza.
Era proprio strano. Quella creatura gli ricordava qualcosa…
Poi la creatura disse pensosa a Stranolupo
“…il mio pungiglione…non ti dice nulla?” iniziava a capire.
Stranolupo aspettò qualche attimo..i due sembravano seguire velocemente le stesse deduzioni, poi con stupore dissero assieme:
“uno scorpione!”
“…..io sono uno scorpione! Sto diventando uno scorpione!”
Entrambi ne conoscevano l’esistenza e la forma. Il piccolo Gorilla-Col-Pungiglione stava davvero trasformandosi in uno scorpione.
Lo Scorpione perciò, infine disse:
“Allora non sono strano, sta per compiersi finalmente la mia metamorfosi. Non sono mai stato come mia madre o i miei fratelli, l’ho sempre saputo”. Era emozionato il Neo-consapevole-Scorpione, con semplicità e spontaneità aggiunse: “Allora anche tu! tu sei..quello che sei, e lo sei per natura. E prima o poi lo scoprirai. Devi solo lasciarti…vivere, poi farà tutto natura. Vivi, aspettando il cambiamento come il mio!”.

E se Stran- Gorilla-Neo-Consapevole-Scorpione se ne andò contento lasciando Strano-Lupo pensieroso.

Stranolupo abbandonò lo scorpione, forte di una nuova verità. Non sapeva cosa egli fosse, ma aveva la certezza che non doveva avere più paura di esserlo.

Così, quel giorno, Stranolupo imparò dallo Stranoscorpione l’arte dell’adattamento, capì che non esisteva un animale migliore di un altro, ma ognuno era dotato nel più profondo di una straordinaria verità. Ognuno aveva dentro se, in qualche punto, dentro se, la capacità di vivere il grande cerchio della vita.

Capì che ogni animale se esisteva era perché aveva diritto di viverci in quel magico e splendido cerchio.

Stranolupo camminava in una rinata sicurezza, pensando che non importava sapere chi fosse,

ma esserlo.

IL FOLLETTO CHE VOLLE ANDARE SULLA TERRA

Folletto

C’era una volta nell’Olimpo un piccolo folletto figlio di un Dio del bosco.
Questo esserino viveva tra gli dei e da tutti era voluto bene e apprezzato, sebbene lui, fosse a tutti gli effetti, un eccezione vistosa tra quegli esseri bellissimi dalle sembianze umane. Lui, infatti, era piccolino, e il suo corpo era ricoperto di peli. Era, se pur minuto, di corporatura robusta, con muscoli del petto e delle braccia scolpiti e spessi. I capelli erano rosso rame e si innalzavano arruffati e dritti in testa. Aveva un petto possente e spalle larghe. Occhi neri, scuri come la notte e un muso animale che ricordava quello di un gorilla. Aveva mani corpulente e forti, i piedi invece erano sostituiti da zoccoli taurini. Il suo sedere era completamente glabro e spiccava, ad effetto, nel mezzo di quella sua folta pelliccia. Su di esso, vi era una coda simile a quella di uno scorpione.
Il folletto era intelligente, abile nei giochi e nelle attività dell’Olimpo, ed imparava velocemente. Era pure molto curioso e un giorno, mentre col permesso del padre, sceso sulla terra, passeggiava nascosto tra i folti pini di un bosco, vide con suo grande stupore una bellissima donna dai capelli ricci e neri che si rinfrescava nelle acque di un piccolo lago. Il folletto ne fu colpito a tal punto che chiese al padre che cosa fosse quell’essere tanto simile alle dee dell’olimpo, eppure, ai suoi occhi così tanto di più attraente.
Il padre, sentendo le sue parole e vedendo la sua eccitazione, decise di spiegargli tutta la verità.

Il padre aveva avuto il folletto da una donna e dunque il piccolo essere era per metà divino e per metà umano. E pure lo stesso padre, aveva vissuto una lunga vita sulla terra, fra gli uomini.
Così, gli spiegò la sua storia, dicendogli che quella forte attrazione che aveva avuto vedendo una donna era normale, in quanto lui stesso era per metà uomo.
Il piccolo folletto espresse il suo desiderio di andare a vivere sulla terra, ma il padre gli spiegò che sulla terra le sue doti non sarebbero state accettate e che nessuno in quel luogo aveva le sue sembianze.
Il folletto però insisteva e incitava il padre a trovare una soluzione. Così che suo padre escogitò una possibile idea. C’erano nell’Olimpo dei corpi di vecchi eroi, belli e possenti come dei, ma pur sempre dalle sembianze umane e dotati di sentimenti. Il folletto avrebbe potuto indossare uno di quei corpi e così poter scendere sulla terra. Mai avrebbe dovuto lasciarsi sfilare di dosso il corpo da uomo perchè gli uomini mai avrebbero potuto capire e per lui sarebbe stato pericoloso.
Così, il piccolo folletto, scelse un corpo, lo indossò e scese sulla terra.

Giunto sulla terra scordò tutto:
con gli occhi del folletto non vedeva che il corpo dell’uomo e dunque, non poteva che pensare e sentire che come un uomo. Infatti, né il padre ricordava, né il folletto poteva sapere, che l’idea pura, quello che di fatto erano gli Dei, scesa in un corpo di uomo è lì intrappolata e assalita da una miriade di sensazioni ed emozioni che ne fanno dimenticare la natura divina al suo interno.

Così, il folletto, o meglio l’eroe, iniziò la sua nuova vita. Dimentico dei suoi più originari piani, ma pur sempre, a qualche livello, sensibile della sua essenza divina.

Dunque: un folletto, un eroe e l’uomo.

Il folletto era un dio e non conosceva né pietà né nulla che non appartenesse alla logica.
L’eroe invece non comprendeva che abnegazione e ideale.

E l’uomo? Lui aveva questo orientamento a guardarsi dentro con cui aveva conosciuto il folletto. E a volte subiva forti passioni che lo portavano a negare qualsiasi limite, e attraverso le passioni aveva scoperto l’eroe.
A poco a poco l’eroe e il folletto si ritrovarono ben distinti dentro di se, e l’uomo faceva sempre più fatica a vivere i suoi giorni terreni.

A volte quando uno stolto offendeva l’uomo, il folletto usciva fuori piccolo piccolo, col suo culetto spelacchiato brandiva un’ascetta in mano e con un piglio irato si slanciava contro lo stolto. Pronto ad ucciderlo. Accadde un giorno che ne uccise uno mettendo in gravissimi guai l’uomo.

Altre volte invece, quando l’uomo incontrava barriere era l’eroe che lo trascinava verso l’idea di terre inesplorate e da scoprire allontanandolo da qualsiasi possibilità di attesa.

“Dove vai?” Gridava alle volte l’uomo verso il folletto. “Dove vai?” gridava ripetutamente contro l’ottusa passione del folletto, che con le zampette corte faceva ridere quando correva, perchè sculettava

“Cosa devo fare dunque?” Gli chiedeva allora alle volte il folletto.
“Non uscire. Non uscire mai”. Rispondeva l’uomo, confuso.
“Ma se in te giace la mia grandezza che fare?” Pensava però poi.

“Non mi trascinare, non mi mettere in pericolo!” Diceva invece alle volte all’eroe.
“Ma tu mi rendi grande”. Pensava tra se e se.

Ai suoi occhi l’eroe e il folletto gli erano migliori. Il folletto era potente e libero. L’eroe era cieco e onnipotente. L’uomo non sentiva di avere nient’altro valore al di là di quelle due presenze dentro se.

A lui rimaneva il rossore delle gote e l’irrefrenabile desiderio.

Dal rossore era impietrito e del desiderio era schiavo.

Riusciva ad agire solo quando il folletto agiva e riusciva a muoversi solo quando l’eroe decideva di muoversi.

– Dunque l’uomo chi è? –

Legati tra loro 

gli uomini,

custodiscono 

la loro verità

nell’amore

l’uno,

dell’altro