MI CHIAMO EMILY

Vorrei condividere questo pezzo con tutte le persone che si sono sentite “diverse” in qualche momento della loro vita. 

Mi chiamo Emily, sono una sociologa di origini tedesche che vive a Istanbul da tre anni.

Ho vissuto in diverse città d’Europa e ne ho assorbito la cultura.

Mi considero una delle tante donne occidentali cresciute con un vuoto di verità e spiritualità che nè solo le fedi religiose nè le sole dissertazioni filosofiche potevano colmare.

Avevo un vuoto fatto di ricerca, tenuto aperto da una chiara e onesta ostinazione nel sapere chi fossi.

L’amore per la verità mi impediva l’accesso alle convenzioni sociali che spesso tengono in piedi le scelte umane e le equilibrano.

Così, sono passata da un lieve disagio percepito a pelle ad una chiara preoccupazione di non appartenenza.

E ho scoperto nei miei problemi individuali, un tentativo di risposta generale.

Già perchè ho pazientato, ho ricercato e infine ho scoperto di non appartenere ad un’intera cultura.

Ho capito che l’identità di un individuo non è slegata da quella di un gruppo, ma che spesso ne subisce orientamenti e delimitazioni.

L’idea di essere diversi da quello che sembra essere diventato il tuo ruolo in quel luogo, è percepito come un dramma. Qualcosa di esagerato e da fuggire. Perchè in fin dei conti l’equilibrio che portano con se l’appartenenza e la somiglianza, mette in luce la verità della diversità come una scelta sconveniente.

Perciò si accetta di vivere con un lontano e costante disagio, ma con la sicurezza di non esser soli. Almeno, esteriormente.

Ma io credo che ogni uomo abbia una sua vocazione e che sia suo dovere agire per riconoscerla. Capire che quel disagio provato non è obbligato e non costituisce la vita. Anzi, addirittura, che se noi soffriamo privatamente, agire per stare meglio è un dovere sociale. Perchè non possiamo stare bene se tutti non stanno bene. Cioè, se non diventiamo la persona migliore che possiamo essere.

Presto ho capito che da sempre esistono espressioni, modi, interpretazioni dei gesti umani e dei traguardi della civiltà, che variano e che risultano relativi se visti in “lontananza”.

Occorrerebbe viaggiare, confrontare diverse società, diversi modi di esprimere le stesse esigenze e i differenti modi a cui in diverse parti del mondo si è giunti per risolverle.

Così da comprendere che al di là degli strumenti e le interpretazioni umane quello che rimane è appunto l’esigenza.

Mi sono perciò portata in un posto dove potessi agire in sintonia col mio essere senza dovere fingere una maschera.

A poco a poco i miei pensieri trovavano aderenza con la realtà. La gente vedeva ciò che io vedevo, e nella loro storia raccontavano ciò che io avrei raccontato. Mi sono sentita finalmente di appartenere ad una umanità. A poco a poco mi sono riconosciuta sotto la maschera che portavo e ho ritrovato me stessa.

La maschera ti da chiare caratteristiche. Pregi riconosciuti. Limiti, altrettanto riconosciuti.

Ti dà la possibilità di scegliere chiaramente ciò che si può e non si può fare.

Inoltre, quanto più è chiara e unica, tanto più sono limitate le possibilità, ma chiare le scelte che dovrai fare. La maschera è semplificativa di un idea, un insieme di caratteri ed è univoca. E’ un univoca affermazione sulla realtà.

Io ad esempio, ho una cugina, e anche lei si chiama Emily.

Quando ci ritrovavamo a casa dei miei nonni, mi ricordo che mia nonna quando aveva bisogno di prendere qualcosa dalla mensola della cucina mi chiamava per aiutarla. Per distinguerci, quando entrambe le rispondevamo, specificava scherzosamente “the longest”, perchè tra le due io ero la più “lunga”.

Agli occhi delle altre persone siamo spesso maschere, ed è un dato di fatto.

Più è la sintonia e l’amore, più abbiamo la possibilità di attenuare ed eliminare queste maschere. Ma semplificare, generalizzare, ritagliare alcuni aspetti e focalizzarci su altri è sempre una tendenza a cui noi tutti ricorriamo quando si tratta di rapportarci l’un l’altro.

Certo è che se dopo tanto tempo uno si toglie di dosso la maschera, diventa davvero difficile agire. Tutto diventa possibile. Perchè mille diventano le sue facce, mille le interpretazioni della realtà, e quindi mille sono le possibilità e mille le scelte.

E’ come un volo. E l’aria tra le ali deve certo terrorizzare.

Dunque che fare?

Occorre andare oltre l’idea delle sensazioni e percepire le sensazioni.

Occorre andare oltre le categorie.

Di fronte ad una donna che ti spiega con gli occhi tristi di quanto sia innamorata del suo uomo, andare oltre l’idea che ti stia mentendo e riuscire a sentire una persona a disagio.

Quando ci si toglie la maschera è terribile affrontare la realtà perchè nulla è più chiaro. Nulla è più chiaramente univoco, ma tutto diventa una personale scelta.

Anche decidere se un temporale sia l’ombrello dimenticato a casa o il freddo sulla pelle. O l’indirizzo perso del tuo unico contatto in una città che non conosci. Sta a te farlo.

La maschera ci culla, togliendoci la libertà, ma dandoci certezze. Codificazioni chiare di una realtà infinita.

Nella mia vita ho incontrato persone simili a me che erano bloccate, avvolte in fantasie culturali lanciate contro di loro da chi proprio non poteva capirli nè, in fin dei conti, voleva accettarli.

E’ come vivevere in una tana. A volte esci. Ma non la lasci per sempre. Ci stai vicino e ci giri attorno. Fai pochi passi e quando c’è qualche cosa che ti crea difficoltà ti ci reinfili subito.

Anche se sei libero, non lo sei. Perchè il tuo istinto è quello di reagire alle cose da dentro la tana. E’ il tuo unico modo di vedere e rapportarti al mondo.

Non sai come vivere negli spazi liberi della vita.

Sopportare il freddo, la vista dei maestosi alberi, contenere l’eccitazione quando indovini da che parte volterà il sentiero mentre ti lanci al galoppo e ti riscopri abile.

Ma la verità, è che la tana è dentro di noi.

In fin dei conti ogni uomo ne ha una e vive assieme agli altri in una più grande. E’ come il mito della caverna di Platone, dove gli uomini non possono che guardarne il fondo su cui sono proiettate le ombre.

Quelle ombre non sono altro che quelle degli altri uomini.

Credo che non ci guardiamo direttamente. L’unico modo di conoscere è conoscere se stessi e comprendere l’altro solo attraverso la similitudine con ciò che abbiamo imparato di noi.

Non sappiamo cosa ci sia fuori nè dalla nostra tana nè da quella  in cui tutti viviamo.

Ma alcuni tendono a buttarsi fuori, altri a rinchiudersi dentro.

Alcuni, ciò che vedono devono conoscerlo, analizzarlo e capirlo fino in fondo. Mentre altri per capire, per analizzare devono prima agire, toccare e sperimentare. Alcuni, stanno nella tana, ammantati da un invincibile calore, affascinati da una promessa di infinita possibilità. Altri si gettano fuori e vagano soggetti alla miriade di sensazioni.

C’è chi per natura si leva la maschera. C’è chi la costruisce, la mantiene e la fa indossare.

C’è chi per natura torna nella tana anche quando non c’è più minaccia. C’è chi ne esce sempre e tenta sempre di far uscire gli altri dalla loro.

Come l’elettrone che gira intorno al suo asse in due versi opposti, così l’uomo alle domande della vita può chiudersi in se stesso o buttarsi fuori.

Eppure occorre trovare l’equilibrio di questi due modi così legittimi e così necessari.

Da tana e da praterie se fossimo animali, questa sarebbe l’irrimediabile distinzione. Ma siamo uomini e oltre la tendenza naturale abbiamo la volontà di migliorarci e agire per il giusto.  

 

Togliere la maschera, avere il coraggio di essere nudi quando l’amore ci cerca. Buttarsi fuori dalla gabbia quando la risposta alla nostra sofferenza è una sensazione. Gettarsi dentro se stessi, quando invece la soluzione ad una sensazione è un idea. In un continuo equilibrio fluttuare tra le possibilità, scegliere e delimitare le proprie azioni, poi ancora fluttuare e ancora scegliere.
Tutto questo si chiama vivere. E tutto questo è materia di vita.

Ho capito che siamo qualcosa, oltre le aspettative di chi ci è attorno, dietro le paure che ci modificano, oltre l’ignoranza in cui viviamo, verso l’esperienza che ancora non abbiamo.

A volte dobbiamo fare un’azione a volte partorire un’idea. A volte di fronte al giudizio esterno dobbiamo rivolgerci in noi stessi e resistere alla tendenza di reagire. Altre dobbiamo reagire e resistere alla tendenza di rivolgerci in noi stessi.

Eccovi quindi questi i miei scritti.

Con pregi e difetti, con zone buie in cui trovar calore e spiragli da cui vedere il cielo.

Questi amici cari, sono gli anfratti della mia tana.

EMILY KARNAK “LONGEST”

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