giaccio
contemplativo
alle volte è il cielo che vuole parlare
IL PIONIERE
Scritto a quattro mani con Domenico Gemelli.
1.
Il mattino era giovane e fresco e speranzoso.
L’aria sulle guance tenere del ricercatore faceva il solletico al collo libero dalla barba, che insieme ai folti e riccioluti capelli vibrava nel vento. Camminava. E il tempo, bello, tradiva un freddo acuto. Ma nemmeno tanto. La pelliccia faceva il suo dovere così come il cappello e i mocassini di tasso. Fiumi, boschi, montagne, laghi, rocce, alberi, prati, vento, sole, pioggia, neve, terra, fuoco. Camminava, camminava, camminava quasi sapendo con certezza la strada da fare. Perché la ragione lo indirizzava sicura verso il destino del mondo, uguale al suo.
Fu ad un tratto che si rese conto di sentire un pianto, un lamento. Come un grido di dolore di un neonato. Corse piano verso la fonte che divenne uno strano stimolo per le sue orecchie. Corse come dannato. Disperato quando si intensificò l’amplificazione ai suoi timpani. Si fermò di colpo sulla cima di una collinetta erbosa che un vento gentile ma sicuro batteva dall’origine del tempo.
Si fermò lì in silenzio immobile e infastidito terribilmente dai compatti esili ciuffi d’erba su cui gravava il peso dei suoi piedi. Calpestati e incitati dal vento, i fili verde acceso, battevano con foga le caviglie dell’uomo. L’uomo stette lì immobile. Poi, improvvisamente, si mosse.
E mentre scendeva a valle non credeva ai suoi occhi. Più si avvicinava, più metteva distanza tra se e quei ciuffi verdi, e più rimaneva basito.
Fu all’improvviso che si trovò sopra quella piccola causa di tale lamento, che con gli occhi sgranati e la bocca aperta lo perpetuava petulante. Gli fu sopra e tutto gli apparve in bianco e nero.
Un bellissimo aquilotto, completamente solo, pigolava disperato.
Il ricercatore sorrise al ciuffo pasticciato e sconvolto di quel piccolo principe guardandolo dritto negli occhi. Aspettò qualche momento per vedere se giungesse la madre, ed era pronto a fuggire veloce. Ma niente accadde. Allora rise. Pensando che se non fosse stato per lui quella bellissima creatura in quello stesso giorno, che sembrava con tutta probabilità il giorno della sua nascita, sarebbe anche sicuramente morto. Rise di un sorriso paterno e benevolo. Prese con se il piccolo pennuto e da quel giorno lo allevò.
Diventata grande, l’aquila volava per osservare dall’alto il territorio e tornava ad informare il ricercatore. I due comunicavano con un linguaggio fatto di sentimenti e fiducia. Il ricercatore, riusciva a vedere negli occhi dell’aquila i branchi di leoni che riposavano all’ombra, larghi e tumultuosi fiumi difficili da guadare, le insidie improvvise degli strapiombi o l’infittirsi di alberi e di erba alta e folta. Così, da quello che leggeva negli occhi di quella fedele compagna, sceglieva con intelligenza il percorso da intraprendere. Quando l’aquila volava, rimaneva fermo e l’aspettava. L’aquila, quando il ricercatore si metteva in cammino, pazientava e placando il suo istinto rimaneva immobile su una spalla del suo protetto. Il ricercatore si fidava dell’aquila e quando si fermava a bagnarsi nei ruscelli durante il viaggio non doveva controllarla perché sapeva che lei sarebbe stata sempre là ad aspettarlo e quando invece riprendeva il cammino interpretava il percorso, fiducioso delle informazioni lette negli occhi della sua amica.
Un giorno, il ricercatore incontrò nel cammino un bellissimo cucciolo di cavallo di cui subito si innamorò. Ovviamente, affinché potesse adottare il puledro, il ricercatore doveva essere certo che l’aquila non ne fosse disturbata e che dunque non volasse via. L’aquila infatti, era diventata fondamentale per il ricercatore. D’altronde, quando il piccolo puledro fosse cresciuto, il ricercatore avrebbe potuto cavalcarlo e raggiungere più velocemente e agevolmente i posti che l’aquila gli avrebbe di volta in volta indicato. Dunque, il ricercatore prese con se il cavallo e lo crebbe facendolo abituare all’aquila e viceversa, insegnando alla fedele regina del cielo a non aver paura del quadrupede.
Diventato grande, il cavallo a volte galoppava forte e potente, mentre il ricercatore, avrebbe voluto mantenerlo ad una certa velocità. Altre volte, doveva impegnarsi con grandi sforzi e concentrazione a tenerlo fermo immobile quando l’aquila era in perlustrazione o quando sceso a piedi, perlustrava lui l’area. Poi, a volte, quando il cavallo galoppava, o il ricercatore scendeva a camminare, capitò che anche l’aquila desse cenno di non essere in sintonia con le decisioni e le esigenze del cavaliere. Così che, l’aquila, in piena corsa faceva brevi ed improvvisi voli che costringevano il cavaliere a fermare bruscamente il cavallo o a trovarsi in situazioni di pericolo nel mezzo di sentieri delicati.
2.
Sole e luna, in uno sfiancante inseguimento senza fine, si avvicendavano nella profondità del cielo a volte liscio, a volte ghiacciato, ora nero, ora rosso, ma sempre presente. Eterno.
Quel cielo che li guardava dall’alto li inseguiva giocando coi loro destini. Mostrava la sua presenza regalando giornate in cui i tre compagni potevano godere del sole e della fresca brezza mattutina. Altre in cui costretti dalla potente pioggia rallentavano il loro cammino concentrandosi sulla ricerca di un sicuro riparo asciutto.
Passò del tempo, ma i tre compari non se ne accorsero, presi com’erano da ora una, ora l’altra preda, l’uno o l’altro bivio, l’uno o l’altro viandante che incontravano giorno dopo giorno nel loro cammino. In un equilibrio costante tra l’istinto, la fortuna e la ragione, intenta a discernere ciò che si poteva e ciò che non si poteva raggiungere.
Questo equilibrio, fino allora, li aveva spinti così lontano dalla originaria terra natale, principio della loro esistenza.
Ancora passò del tempo. Ma ci fu un giorno in cui il ricercatore sembrò accorgersene.
Arrivò un istante in cui si guardò improvvisamente intorno. Mentre l’aquila volava alta su di lui compiendo maestosi giri. E il cavallo che montava, viaggiava spedito come una locomotiva impazzita.
In quell’istante al ricercatore sembrò che il mondo si concentrasse tutto in quella prateria che gli zoccoli del cavallo scalfivano rabbiosi. In quella prateria che scendeva e risaliva in una serie infinita di grandi e piccoli avvallamenti che si scontravano, in lontananza, più in basso alla sua destra e sinistra, con le meravigliose macchie di leopardo dei boschi.
Anche la lontana montagna, quel complesso roccioso azzurro, viola e arancione che dovevano superare, gli sembrava fare parte del suo mondo. Eppure, era di certo il limite di un altro mondo, altre praterie, altri sconfinati avvallamenti, che si confondevano tra gli alberi di altri boschi, al tramonto, sull’orizzonte.
Solo la fiera aquila che dall’alto, sicura di sé, precedeva il forte cavallo e il suo coraggioso cavaliere sembrava riuscire a comprendere con indiscussa certezza le reali distanze di quell’universo infinito.
In quell’istante, nell’istante in cui la percezione del ricercatore fu quasi in balia del galoppo forsennato.. in quell’istante in cui la sua vista sintetizzò quel panorama scorrevole in sottili linee orizzontali parallele bianche e rosse…
In quell’istante, il ricercatore capì che la ragione della sua ricerca non era la brama di fama o gloria. O conoscenza di terre lontane e ancora sconosciute. Quello che fin’ora aveva certamente cercato era se stesso. La brama che lo bruciava era la brama di raggiungere il possesso della sua natura.
Ma qual’era la sua natura?
In quell’istante.. intuì anche di colpo qualcosa che lo sconvolse e lo mortificò.
Intuì pensando proprio alla natura di quei due animali così perfetti. Che egli aveva preso nel suo cammino e che ora usava quotidianamente. Essi, se pur apparentemente differenti, lo avevano illuminato della stessa luce della verità.
Le anime delle due bestie, come grandi e possenti rami che toccano spicchi di cielo differenti guardando a nord o sud o anche ovest ed est, erano figlie del medesimo tronco. Quel tronco, quella base, quell’origine comune altro non era che l’istinto più nero e profondo. L’istinto prominente che li dominava.
Era quello contro cui aveva combattuto per lungo tempo per assoggettarli al suo volere.
Il ricercatore si sentì triste. Di una tristezza senza rimedio. Un malessere vuoto e senza nome che lo colpi al cuore.
Fu allora che il giovane e forte cavallo, come quasi riuscendo a scrutare nell’animo dell’umano amico, rallentò inizialmente pian piano la sua corsa. Fino, in seguito, ad interromperla. Perché in quel momento il cavallo capì. L’aquila rapace fece un grido.
Un altro, ancora più acuto e terribile lo seguì. La risata isterica della regina dei rapaci non riuscì tuttavia a interrompere il pensiero del pioniere che continuava come un fiume a fustigare il suo cervello.
Il suo problema: la sua ragione.
Egli era nato per essere schiavo perché il suo istinto, era schiavo.
Niente di più crudele era che essere schiavi di se stessi. Perché la ragione che sottomette l’istinto, l’artificio che domina la natura, erano per lui motivo di lancinante fustigazione.
Fu arrabbiato poi quando pensò che la sua condizione schiava era anche l’unico motivo di repressione della bellezza naturale della vita intera.
Nella sua schiavitù aveva trascinato cavallo e aquila, che diversamente da lui, erano nati per essere liberi e mai oppressori di quel mondo di cui facevano a pieno parte.
Questi erano i suoi pensieri.
Si vide così come “lo schiavo padrone che rende schiavi i liberi”.
Questa, la sua confusa conclusione.
Quando queste spaventose idee si resero chiare nella sua mente era ormai buio.
Il fedele cavallo, dal quale era sceso, restava fermo immobile a lui vicinissimo, sotto un grosso sanbuco bianco. Lo osservava preoccupato come quasi nemmeno un amico ubriaco fa, con l’altro amico, pure ubriaco.. Sbigottito il confuso bipede, fece finta di abbassare il collo con la scusa di seguire un gustoso filo d’erba…in quel momento inesistente.
L’aquila, muta con lo sguardo arcigno aspettava sul ramo.
Quella notte nemmeno una stella a illuminare il cielo.
Tutto a un tratto il ricercatore si mise a correre o meglio si lanciò selvaggio. Pazzo e selvaggio.
Si lanciò in una spaventevole corsa.
Libero, animale.
Fuggì. Abbandonò il puledro e la sua aquila e fuggì.
3.
Passò la notte e si fece mattino, ma ancora un pò buio. Le nubi minacciose coprivano il cielo e la pioggia che già bagnava il sotto svegliò il sonno del maestoso equino che subito sbuffò un leggero nitrito.
La pioggia grigia iniziò a cadere fittamente dritta e un altro sbuffo servì da sveglia ad un corvo che aveva preso il posto dell’aquila sul ramo dell’albero durante la notte. Cavallo sbuffò un altro nitrito, più forte questa volta. Rimase fermo sotto l’enorme sambuco bianco fino a quando non si accorse delle altissime ali della compagna volante che virò in una lenta picchiata giungendo ad appollaiarsi li vicino.
Entrambi si fecero compagnia.
Passò quel giorno così. E molti ne seguirono senza che il cavallo abbandonasse per un solo istante quella che era divenuta ormai la sua casa, l’aquila invece volava alta senza ripetere mai lo stesso giro ma sul finire del giorno sempre tornava a fare compagnia all’ormai unico amico che gli rimaneva.
Era allora che i due si guardavano dritti negli occhi per parlare. La natura li aveva dotati certamente del linguaggio muto della mente e i due esseri sembravano interpretarlo alla perfezione.
Ogni volta però il loro dialogo si concludeva con un silenzio, vero questa volta, che durava tutta la notte e tutto il giorno successivo fino al tramonto.
Era allora che l’aquila scendeva e il dialogo poteva ricominciare per terminare sempre allo stesso modo: silenzio.
Neanche l’aquila era riuscita quel giorno dall’alto del suo regno a intravedere con i suoi acutissimi occhi dove aveva concluso la corsa l’ormai perduto vagabondo. Non poteva o forse non voleva. Il cavallo pensava questo e mille altre cose che sempre, ogni notte, riferiva all’amica pennuta. Il tempo passava e ora lo si intuiva prepotente. Sembrava che fosse veloce il doppio del normale quasi a volersi riprendere beffardo, il tempo già trascorso e mai accusato. Ma si è giovani una sola volta e il cavallo pian piano subiva un ritorno ai suoi istinti più originari, che mai aveva imparato a conoscere perchè da subito era stato allevato dal cavaliere.
Ricordò innanzitutto che l’aquila, che il cavaliere gli aveva insegnato a tollerare, le era sempre stata antipatica. E ora lo percepiva ancora chiaramente. Lo aveva dimenticato per amore del suo cavaliere, ma le era sempre stata antipatica. Per natura.
Trascorse molto tempo e dopo altrettanto tempo che per una strana inerzia innaturale spese bloccato sotto quel sambuco bianco in cui lo aveva lasciato il suo vecchio padrone, arrivò un momento in cui prese a vagare. Ancora libero. Nelle praterie sterminate.
Passò del tempo e infine aveva completamente raggiunto la sua vera natura di libero figlio della terra.
Andava al fiume, se gli andava, correva, se gli andava.
Viveva se gli andava.
L’aquila lo guardava dall’alto e lo stuzzicava terribile. Non lo abbandonava mai. E da quando il cavallo aveva abbandonato il sanbuco bianco e aveva preso ad errare libero era sempre con lui. Nell’alto dei cieli.
Gracchiava. Planava, girava, si lanciava in picchiata. A volta cacciava, altre esplorava, si spingeva in cieli nuovi e prima sconosciuti, ma poi tornava dove il suo amico equino si fermava a riposare la notte.
Lei non si era mai dimenticata, diversamente da quanto aveva fatto il cavallo, delle avventure trascorse insieme. Si ricordava ancora quei lunghi disperati inseguimenti ma ora, senza più il ricercatore gli sfuggiva qualcosa: il perchè.
Perchè lei e lo strano essere mangiaerba erano un tempo stati così amici. Qualcosa gli sfuggiva.
Ora pensava solo che fosse così strano!
Niente mai gli sfuggiva se non era lei a volerlo. Anche lei come il cavallo aveva dopo tempo imparato ad abbandonare il sanbuco e riacciuffato la vita. Che continuava anche senza il suo vecchio compagno umano.
Aquila volava, cavallo correva, lontani mille miglia o l’uno sotto l’altro la vita continuava, libera come sempre.
Fino a che..
Un giorno, la formidabile cacciatrice vide qualcosa.
Qualcuno.
L’uomo.
Subito ricordò tutto. Comprese lo strano affetto non ricambiato che nutriva per l’equino. Ricordò che un tempo, lei era gli occhi di un umano mentre quel semplice ma potente quadrupede, le sue potenti zampe. Guardò quell’umano senza pelo fare il bagno nel torrente ma non riusci a capire con certezza se si trattava del suo vecchio: gli umani gli sembravano tutti uguali.
L’umano dai lunghi cappelli grigi e dalla folta barba nera, si tuffava e riemergeva dalle acque come un vecchio stupido delfino. Si alzava su due piedi e tirandosi i capelli indietro sputava gocce di fresca acqua sorgiva. Si rituffava e riemergeva.
A pelo d’acqua, rivolse i suoi occhi fradici verso il cielo e vide un miraggio.
In lontananza la grande aquila virava e girava come l’avvoltoio sulla carcassa.
La sua vecchia aquila. Era uguale a nessun’altra.
Era contento.
Fece un grido basso, a salutare la vecchia amica che aveva ritrovato. Anche l’aquila gridò, e il suo grido si unì con quello del suo padrone. Uno stridulo fischio come solo lei sapeva fare in un animalesco sbraito che facevano un suono strano e unico.
All’aquila parve di provare paura. La prima volta nella sua vita che un sentimento, un emozione così disperata l’avvolgeva minacciosa e misteriosa.
Del resto, non sapeva cosa fosse la paura. E ne ebbe più paura.
Anche il cavallo, lontano, lontano, lontano, capì. Sentì che c’era un vecchio amico non molto lontano.
Alzò la testa al cielo e iniziò a correre.
Il ricercatore, vagabondo, cacciatore salutava felice con i grandi movimenti semiarcati delle braccia.
Aveva fatto quel bagno almeno mille da che aveva abbandonato i suoi compagni di viaggio animali.
Mille volte era andato a caccia di cervi, mille volte aveva acceso il fuoco di notte.
Aveva lottato con orsi e lupi e sempre era riuscito a spuntarla. Era sopravvissuto per osservare le stelle luminosissime della notte selvaggia. .
Era passato molto tempo dal giorno che si era destato dal lungo sonno della civile costrizione e che aveva sentito che una nuova vita lo stava aspettando da qualche parte. Che lo stava aspettando già da molto tempo e che egli, rinvigorito da una nuova coscienza, non l’avrebbe più fatta attendere. La vita.
Dal giorno in cui trovò improvvisamente la libertà fuori da ogni città. Prima solo, poi con l’aquila poi in groppa al suo cavallo.
Era passato molto tempo anche da quella notte in cui si riscoprì uomo figlio della terra.
In cui aveva lasciato il cavallo e l’aquila del cielo. Da quella notte in cui il freddo si faceva sentire forte e il cielo se pur scuro scuro sembrava ai suoi occhi finalmente chiaro. Illuminato dall’istinto. Nulla in quell’istante di quella notte, gli sembrò più importante del suo istinto. Neppure lo sguardo intenso del cavallo che timidamente l’aveva guardato con gli occhi di chi, se fosse stato un uomo, sarebbero stati sicuramente quelli di chi domanda silenzioso cosa stia succedendo.
Perché sì era reso conto che nemmeno un giorno prima di quel momento aveva vissuto. Goduto a pieno. Vissuto. Niente. Tutto.
Tutto. Perché lasciò lì tutto. Quella notte.
Sotto l’enorme albero al quale aveva stretto la lunga corda che legava il suo tenero e forte destriero.
Sotto la volta nera nera che sembrava rappresentare perfettamente il suo animo. Quella notte.
Perché niente, il tutto devono essere neri neri.
Come quella notte.
Gli era venuta voglia di scalarlo quell’albero. In un’istante, quella notte, gli era venuta voglia di scalarlo.
Per un istante pensò pure di slegare il suo cavallo.
Perché l’istinto va e viene. E il pioniere non era abituato ad assecondarlo. Strascichi di ragione avevano combattuto nella sua mente. Ma poi, niente più.
Corse via. E da quel momento, ne avrebbe scalato di alberi.
4.
Ora, immerso nell’acqua, con il naso in aria e il mento e la bocca nell’acqua, in un altro istante…la verità vive negli istanti… si destò. Tornò in sé, maestosamente incredulo. Ancora. Muto.
Stava pensando.
Aveva pensato.
Terribile. Mille sensazioni lo assalirono.
Strano. Brutto. Cielo.
Sentiva di nuovo il dolore.
Probabilmente, il primordiale dolore dell’uomo che è all’origine di ogni civiltà.
Terribile. Eppure…Vita. Di nuovo.
Il fuoco della notte di stelle.
Confuso. Tutto era come la notte di mille giorni fa quando il ricercatore “visse”.
Ma tutto il contrario: il ricercatore-vagabondo morì e si riscopri pensatore. Senti rabbia, schifo, freddo, violenza, odio.
Sputò forte il veleno.
Sentiva qualcosa dentro se. Una frustrazione che nasceva da una nuova lotta al suo interno. Qualcosa sembrava ripugnare il suo stato. Ma non ne era convinto.
Allora con un gesto che sfidò una parte che lo costituiva, un’altra parte che pure lo costituiva gli fece prendere il coltello e ammazzare il daino che aveva catturato la mattina e che ora si divincolava legato lì pochi metri lontano.
Il sangue lo bagnò. Il suo viso cambiò.
Gli occhi, quegli occhi che finora si erano nutriti della bellezza pacifica del mondo si spensero folgorati nella violenza della natura.
Una parte morì.
In quel momento l’animo umano fatto di ragione prese il sopravvento.
Il ricercatore-vagabondo-cacciatore gettò un’inquietante risata. Folle.
Era l’ultimo saluto dell’istinto animale.
Un nuovo gioco sarebbe ricominciato.
Perché lui era nuovo.
Questa volta conscio di essere Uomo.
Mentre i suoi occhi guardavano la figura del cavallo che correva verso di lui farsi sempre più grande. E sentiva gli urli acuti della sua aquila.
Il ricercatore, neo-pioniere pensò:
“Io non sono l’aquila, ne il cavallo. Il mio compito non è quello di volare nell’aria e vedere tutto dall’alto, neppure quello di bruciare grandi distese con velocità”.
Pensò questo, il pioniere. Si avvicinò al cavallo, lo montò. Gettò un grido all’aquila che rispose, come sempre, unendo a quello umano il suo strillo divino.
E si rimise in cammino.
Questa volta aveva il suo cuore pieno di una nuova fede.
Prese a camminare e proseguì risoluto.
Certo che il cavallo e l’aquila avrebbero ancora una volta aiutato il suo cammino.
Mangiò carne quella sera.
Aveva trovato la sua natura.
Ancora una volta ma per sempre, quella vera.
Finché aveva vissuto da ricercatore, aveva vissuto sì da uomo ma senza capirne il significato. Qualcosa lo tormentava al suo interno, da quando aveva abbandonato la civiltà. Era certo che in essa non c’era il suo scopo, ma poi, nella solitudine della natura, una sfida pericolosa aveva invaghito il suo animo. Quell’uomo tanto sincero quanto forte si era abbandonato ad essa e si era avvicinato alla condizione animale.
Quando era un uomo faceva ciò che facevano gli uomini. Quando si abbandonò alla natura si ritrovò a fare ciò che le bestie senza pensiero, fanno.
Ma ora comprendeva che lui era un pioniere. E che nella sua vita avrebbe dovuto ricercare nuovi mondi, nuovi territori, nuove sorgenti…Che le avrebbe dovute regalare alle civiltà le quali se pur non custodivano il suo scopo, erano fonte di una dignità che accumuna tutti gli uomini…di cui pure si sentiva fortemente e irrimediabilmente, umanamente, parte.
Perché sempre, pure quando abbandonò la civiltà, da ricercatore, non faceva altro che seguire l’istinto, ma non lo sapeva. Curiosamente o fatalmente o stupidamente o chissà cos’altro, nel momento in cui decise, ragionando di diventare ricercatore forse per la prima volta in vita sua, inseguì l’istinto. Non fece altro che inseguire l’istinto con la ragione. Un istinto umano che non vive nella terra ma nel cielo. Un istinto che porta l’uomo a superare il suo stato ed evolvere la sua condizione.
Capì nuovamente e si ridestò per la seconda volta nella sua vita.
La ragione è l’istinto del genere umano.
Vivendo una vita di costrizioni istintive, l’uomo figliodellaterra domina il pensiero mortificando l’istinto.
Si solleva dallo stato di bestia, costruisce civiltà in cui poter vivere in sicurezza e in armonia con i suoi fratelli uomini.
Ma pur sempre, esisterà chi come il pioniere si sentirà spinto fuori dalle civiltà… perché le sue risposte non vivono in ciò che esiste. Nè le sue domande sono mai state formulate.
Il pioniere sempre sarà portato a viaggiare verso domande che non hanno domande, verso i nomi che non hanno nomi. Sarà bruciato da una inspiegabile brama che lo lega a fonti lontane che vivono accese nel suo animo fatto di idee. Questo animo speciale è l’animo di un pioniere. E il raggiungimento di quelle fonti senza nome, è il suo fine.
Capì tutto questo, il neo-pioniere.
E senza parole, partì nuovamente.
COME CAINO E ABELE
“Questo pezzo lo dedico a Manuel Mangili, ispiratore e coautore inconsapevole, oltre che mio primo lettore”. L’autore.
Pofka e Martino.
Due maschere, due ruoli carnevaleschi.
Uno figlio di un fisico polacco, l’altro di un pentito siciliano.
Entrambi figli di emigrati. Entrambi laureati in lettere e senza un lavoro fisso.
Amici da sempre. Fin da quando nel cortile si contendevano le attenzioni del più simpatico del gruppo. Il più “splendido” e ambito. Paradigma dell’italiano “sorriso e battuta” disarmanti.
Ora, i più “splendidi” erano loro.
Come se non fosse stato per caso si erano ritrovati in un momento della loro vita in cui dubbi e domande erano comuni. Vivevano una sintonia inusuale per due solitari guerrieri ribelli come loro, sempre stati contro tutti e contro tutto.
Da quando si erano reincontrati si trovavano più o meno ogni notte allo stesso pub. Seduti al bancone, con un liquore in mano e a parlare liberi di ogni cosa. Analizzavano il mondo intero, senza preconcetti o inibizioni.
Ma in fin dei conti sembravano impersonificare due visioni, due concezioni definitivamente opposte.
Quella sera, dopo essersi confessati di essere uno “un idealista”, l’altro “un pragmatico”, Pofka e Martino si ritrovarono a discutere sul bene e sul male.
Martino: “Il male è più di successo del bene. Il cattivo, lo scorretto è più efficace del corretto”.
“Però, sai cosa fa veramente la differenza?” lo interruppe Pofka.
Martino: “Cosa?”
Pofka: “Le donne”.
Martino: “Le donne?”
Pofka: “Sì, le donne. Se le donne non scegliessero il potere, ma la nobiltà e la lealtà di un uomo, se scegliessero la giustizia,la libertà e la generosità, allora il potere non coinciderebbe più col successo. L’uomo di successo sarebbe il povero, nobile e forte. Non il ricco spregiudicato e potente. Se ti scelgono le donne sei di successo, e sei di successo perchè ti scelgono le donne”.
Martino, interessato dall’interpretazione originale dell’amico, disse con un ghigno curioso:“Può essere”.
Pofka: “Se ci fossero due persone, due rappresentanti di due stili di vita complementari e opposti: uno della spregiudicatezza, della cattiveria finallizzata alla realizzazione dello scopo e l’ottenimento del potere, l’altro dell’ideale, della nobiltà e della forza”.
“Un po’ come Caino e Abele” lo interrupe Martino.
Pofka: “ Sì, Caino e Abele. E che entrambi fossero da sempre i due rappresentanti ultimi di due regni, di due modi di vivere da sempre in contrasto e naturalmente opposti; se questi combattessero, a mani nude in un combattimento finale in cui chi perde perde tutto..e in cui le regole sono: “si combatte solo a mani nude”..mi segui?”
Martino: “ti seguo”
Pofka: “..nella durata di tutto il combattimento Abele usasse le mani nude e dominasse Caino per forza e abilità,fino a che però Caino non tira fuori un arma (contro le regole) e lo neutralizza, vincendo.
Martino: “Caino vincerebbe il potere”.
Pofka: “Sì, ma se tutte le donne presenti su la faccia della terra in quel momento si schierassero dalla parte di Abele, rinunciando a vivere nel regno di Caino, fino a morire piuttosto…Se scegliessero la nobiltà, la lealtà e la correttezza di quell’uomo sconfitto dalla cattiveria, dalla slealtà e dalla spregiudicatezza di Caino. Se scegliessero quell’uomo che se pur ci fosse stata la possibilità di barare e combattere armi pari contro il baro, non l’avrebbe mai fatto per idealismo, coerenza e correttezza eroiche, il vincitore alla fine sarebbe comunque lui. Perché le donne l’hanno scelto e perciò l’hanno reso il vincitore. Caino, rimarrebbe solo. Col potere, ma il suo istinto accuserebbe un grosso colpo. Dallo stomaco, qualcosa raggiungerebbe il suo cervello facendo leva sulla sua etica. A poco a poco perderebbe le forze. E a quel punto o si adatta o muore. O diventa “buono” o muore. E invece, nella vita succede il contrario: Abele si adatta a Caino dopo aver ricevuto il grosso colpo. Ed è Caino il paradigma più vincente”.
Martino: “Quindi c’è differenza tra potere e forza..Chi raggiunge il potere con qualsiasi strada, può soggiogare il forte, fare leva sul suo istinto di sopravvivenza e modificarlo”.
Pofka: “Sì”.
Martino: “Ma allora non solo le donne, ma anche chi è al potere può decidere quale paradigma far dominare”.
“Proprio così” disse Pofka soddisfatto, sorseggiando il suo liquore.
“L’uomo, che se ne farebbe del potere senza le donne? Ogni cosa che fa è per conquistare la donna. Ogni singola cosa la fa per la donna. Il poeta che scrive poesie specializzandosi nella sua sensibilità, il business-man che crea e trasforma business facendo soldi, persino il filosofo che vive nei suoi pensieri, ognuno di loro agisce in quel modo”,
Si fermò a sorseggiare ancora una volta il suo whiski e riprese: “Perché in un momento della sua vita ha percepito che quello era il modo per conquistare la donna. Per il resto, chi agisce schiacciando e barando, lo fa sempre per la donna: per mantenerla a se”.
Mentre erano assorti in quei discorsi, Pofka si soffermò con lo sguardo su una coppia appena dietro Martino.
Il ragazzo, capelli radi e corti, stempiatura e piazzola evidenti, indossava un maglioncino a V coi rombi fucsia e color salmone. La ragazza, bionda, capelli corti, occhi verdi e un neo sulla gota destra, sembrava guardare Pofka già da un pò.
Forse, aveva sentito i discorsi che lui stava facendo assieme a Martino.
A un certo punto, mentre i loro occhi erano gli uni negli altri, la ragazza piano piano gli mostrò il dito medio.
Continuarono a guardarsi negli occhi. Per un minuto circa filato, finché Pofka non disse:
“Perché?”
Lei rispose muovendo le labbra:
“Sfigato”.
Martino chiese a Pofka cosa stesse succedendo e Pofka, dopo aver ripetuto “Perché?”, spiegò velocemente a Martino che una ragazza lo fissava con un’ “espressione di dissenso”.
Lei continuava a guardarlo.
Poi, dopo altri minuti che si fissavano Pofka le disse:
“Possiamo stare così tutta la serata. Che hai? Ti piacciono i miei occhi?”
Lei fece spallucce.
I suoi, Pofka, li trovava splendidi.
“La adoro” disse a Martino, “mi fissa e mi sfida. Io la adoro”.
“Che cazzo dici Pofka?”
“E’ splendida. Mi ha offeso. Mi sta sfidando, ma la adoro. Non so neppure il perché mi stia facendo questo. La adoro. La adoro. Lei lo sa.
Vedi? quello che stavamo dicendo: sa quello che sono, sa che la voglio e mi mostra il medio. Lei sa tutto e lo capisce, non so come, ma lo capisce. Io la voglio, e in qualche modo lei lo sa. E’ con quel senza palle anonimo che ha attaccato lite con te mercoledì alla fiera del libro ricordi?”.
“Già. E’ il suo ragazzo?”
“Eppure non si sono scambiati neppure una carezza per tutta la serata”.
“Fatto sta che si accompagna con quello”
“Comune, senzainfamiasenzalode, insulso e pure bruttino”. Disse Pofka, e aggiunse:
“Oi, lei ha fatto spallucce e mi continua a fissare”
“Sprechi il tuo tempo con me? Guarda il tuo ragazzo, no?”. Disse Pofka alternandosi tra le riflessioni comuni con Martino e l’interazione con la ragazza.
“Mi guarda. Che begli occhi, la adoro. E’ splendida. E’ splendida”.
All’improvviso Pofka si alzò, sotto gli occhi curiosi e attenti di Martino. Si fece spazio tra le sedie e raggiunse il tavolo della biondina.
La guardò e le disse:
“Hai ragione a mandarmi a fanculo, e mi accodo a te: mi mando anch’io a fanculo. E sai perché?
Perché appartengo a quel genere di persone che per timidezza non si avvicinano mai a un tavolo di un pub per dire con cortesia e stile a una ragazza come te, che la trovano bellissima, la più bella donna che abbiano mai incontrato.
Io mi faccio coraggio, e ora,
mi sento di chiederti scusa a nome di tutta questa categoria,
perché non agiamo.
E alla fine, vi costringiamo ad uscire con uomini vuoti e senza fascino”.
A quelle parole Pofka guardò il tizio ‘senzainfamiasenzalode’ dritto negli occhi, lui accennò una reazione di finto orgoglio, ma si rimise a cuccia non appena vide dietro di Pofka, Martino, spostare di riflesso la sedia. Pronto a raggiungerlo.
Pofka concluse:
“E se mi mandi a fanculo, forse è perché tutto questo, tu già lo sai”.
Tornata la quiete.
Fatta pace col senzainfamiasenzalode amico del propretario del pub amico di Pofka e Martino.
Uscita la coppia senzainfamiasenzalode-biondina.
I due amici continuano a discorrere.
Martino: “Caino e Abele.”
Pofka: “Caino e Abele. Li posso percepire con chiarezza nel mondo. L’uomo di successo è necessariamente Caino. Chi ha successo non può nella sua storia non avere usato ‘cattiveria’, che è in assoluto efficace alla sopravvivenza.Abele, inteso come chi rifiuta sempre il male, perisce. E’ il più debole, non godrà della sua famiglia e della dolcezza delle donne sensibili e timide, che mai si esporranno.Caino sì. Caino farà una famiglia, prenderà con prepotenza e sicurezza la donna, strappandola a qualche Abele timido e incapace di agire. Avrà figli da cui sarà amato. Sarà leader di gruppi di cui sarà stimato e che lo narreranno alla storia come un uomo capace e di valore. Vivrà abbastanza a lungo per diventare il buono, cambiato dall’amore, oppure solo per la storia: morirà come Ser Ciappelletto, santo per i posteri”.
Martino: “Perciò, la storia la fanno i Caino”.
Pofka: “Sì. Gli Abele, timidi, introversi, emotivi, sensibili, gentili e premurosi, incapaci di agire, moriranno soli e sconosciuti. Al massimo, subiranno la storia e ne saranno modificati in uomini acidi e rancorosi. Disillusi e senza amore. Moriranno da Caino agli occhi del mondo”.
Martino: “Perciò non c’è spazio per il bene in questo mondo?”
Un nodo difficile da sbrogliare.
E con questo nodo si salutarono, e andarono a dormire.
Sono le quattro del mattino. Pofka sta dormendo ormai da un’ora. All’improvviso sente il telefono squillare.
Martino: “Eureka.”
“Che c’è?” rispose assonnato e pacioso Pofka, riconoscendo la voce di Martino.
….
Un attimo di silenzio e Martino esordì:
“Ma come puoi definire uno, ‘Abele’, con certezza?”
Aspettò un attimo, e un pò confuso Pofka iniziò a parlare: “Ad esempio io, penso con pietà e compassione a tutte le persone deboli che subiscono l’invadenza…la prepotenza dei più forti. Ho simpatia per il più debole. Non agirei mai con forza nei confronti di un debole e piuttosto di calpestargli i piedi, me li farei calpestare….”
Martino: “Ma non è umano! Non puoi andare verso il dolore consapevole. L’uomo rifugge il dolore. Essere buoni non lo puoi volere. Finiresti per non fare male agli altri, ma, su tutti, distruggeresti te stesso. E se siamo figli di Dio, stai facendo male a un figlio di Dio. Potresti dire che sei buono nel pensiero, vivendo nell’ideale, ma nell’azione puoi far male. Esattamente come me che sono più pratico. Ma non lo saprai mai. Mentre potrei dirti, che io, che penso a volte cattiverie, ho agito bene in alcune situazioni. Tu rifuggi il fango per principio, “che è male” giusto? perché sei abituato al bene. Ma non è detto che quando, rifiuti ciecamente il fango, ‘pulendoti’, non lo rigetti in faccia agli altri. Non è detto che non risulti fonte del loro male”.
Pofka: “Ho capito.”
Martino: “Bisogna agire, secondo ciò che si ritiene giusto, consapevoli che siamo limitati”.
“Occorre essere come bambini”. Rispose Pofka ormai del tutto sveglio e pienamente partecipe della nuova discussione.
Martino: “Già, ma il concetto è che essere bambini non significa essere buoni. Fare e pensare sempre la cosa buona, non è così. Non lo è. Essere come bambini significa lottare, piangere, gridare per ciò che si vuole, che si crede giusto. Con la propria limitata visione. Non pensare al tutto, al destino..a chi è buono e chi è cattivo..Sono pensieri di Dio. Occorre agire, all’interno del tuo piccolo mondo e cercare il meglio..del “qui” e dell’ “ora”, per il tuo piccolo mondo”.
Pofka: “Già. Il bambino non vive nel passato, ne nel futuro, il bambino cerca sempre il modo migliore..in quel momento, in quella situazione”.
Martino: “L’essenza più vera è quella del fanciullo, che crescendo ci fanno credere di dover abbandonare. E quando sarai come un bambino, non vivrai nel passato ma nel presente!”
Mezz’ora dopo..Questa volta è il telefono di Martino a squillare interrompendogli il sonno.
“Li ho sognati”.
Ovviamente era Pofka.
“Chi?” rispose assonnato ma pacioso Martino.
“Caino e Abele”.
“davvero?” disse Martino ridendo felicemente.
“Sì. E si abbracciavano”. Rispose altrettanto felicemente Pofka.
“Abele diceva ‘Ti prometto che non ti farò più pesare la saggezza e il mio idealismo, e proverò ad imparare da te ad essere più pratico’. E Caino gli rispondeva ‘Ti prometto che cercherò di insegnarti la praticità, e di imparare da te ad essere più altruista’. Alla fine, ‘Ti voglio bene Caino’, ‘Ti voglio bene fratello mio’.
“Notte Martino”
“Notte Pofka”
MI CHIAMO EMILY
Vorrei condividere questo pezzo con tutte le persone che si sono sentite “diverse” in qualche momento della loro vita.
Mi chiamo Emily, sono una sociologa di origini tedesche che vive a Istanbul da tre anni.
Ho vissuto in diverse città d’Europa e ne ho assorbito la cultura.
Mi considero una delle tante donne occidentali cresciute con un vuoto di verità e spiritualità che nè solo le fedi religiose nè le sole dissertazioni filosofiche potevano colmare.
Avevo un vuoto fatto di ricerca, tenuto aperto da una chiara e onesta ostinazione nel sapere chi fossi.
L’amore per la verità mi impediva l’accesso alle convenzioni sociali che spesso tengono in piedi le scelte umane e le equilibrano.
Così, sono passata da un lieve disagio percepito a pelle ad una chiara preoccupazione di non appartenenza.
E ho scoperto nei miei problemi individuali, un tentativo di risposta generale.
Già perchè ho pazientato, ho ricercato e infine ho scoperto di non appartenere ad un’intera cultura.
Ho capito che l’identità di un individuo non è slegata da quella di un gruppo, ma che spesso ne subisce orientamenti e delimitazioni.
L’idea di essere diversi da quello che sembra essere diventato il tuo ruolo in quel luogo, è percepito come un dramma. Qualcosa di esagerato e da fuggire. Perchè in fin dei conti l’equilibrio che portano con se l’appartenenza e la somiglianza, mette in luce la verità della diversità come una scelta sconveniente.
Perciò si accetta di vivere con un lontano e costante disagio, ma con la sicurezza di non esser soli. Almeno, esteriormente.
Ma io credo che ogni uomo abbia una sua vocazione e che sia suo dovere agire per riconoscerla. Capire che quel disagio provato non è obbligato e non costituisce la vita. Anzi, addirittura, che se noi soffriamo privatamente, agire per stare meglio è un dovere sociale. Perchè non possiamo stare bene se tutti non stanno bene. Cioè, se non diventiamo la persona migliore che possiamo essere.
Presto ho capito che da sempre esistono espressioni, modi, interpretazioni dei gesti umani e dei traguardi della civiltà, che variano e che risultano relativi se visti in “lontananza”.
Occorrerebbe viaggiare, confrontare diverse società, diversi modi di esprimere le stesse esigenze e i differenti modi a cui in diverse parti del mondo si è giunti per risolverle.
Così da comprendere che al di là degli strumenti e le interpretazioni umane quello che rimane è appunto l’esigenza.
Mi sono perciò portata in un posto dove potessi agire in sintonia col mio essere senza dovere fingere una maschera.
A poco a poco i miei pensieri trovavano aderenza con la realtà. La gente vedeva ciò che io vedevo, e nella loro storia raccontavano ciò che io avrei raccontato. Mi sono sentita finalmente di appartenere ad una umanità. A poco a poco mi sono riconosciuta sotto la maschera che portavo e ho ritrovato me stessa.
La maschera ti da chiare caratteristiche. Pregi riconosciuti. Limiti, altrettanto riconosciuti.
Ti dà la possibilità di scegliere chiaramente ciò che si può e non si può fare.
Inoltre, quanto più è chiara e unica, tanto più sono limitate le possibilità, ma chiare le scelte che dovrai fare. La maschera è semplificativa di un idea, un insieme di caratteri ed è univoca. E’ un univoca affermazione sulla realtà.
Io ad esempio, ho una cugina, e anche lei si chiama Emily.
Quando ci ritrovavamo a casa dei miei nonni, mi ricordo che mia nonna quando aveva bisogno di prendere qualcosa dalla mensola della cucina mi chiamava per aiutarla. Per distinguerci, quando entrambe le rispondevamo, specificava scherzosamente “the longest”, perchè tra le due io ero la più “lunga”.
Agli occhi delle altre persone siamo spesso maschere, ed è un dato di fatto.
Più è la sintonia e l’amore, più abbiamo la possibilità di attenuare ed eliminare queste maschere. Ma semplificare, generalizzare, ritagliare alcuni aspetti e focalizzarci su altri è sempre una tendenza a cui noi tutti ricorriamo quando si tratta di rapportarci l’un l’altro.
Certo è che se dopo tanto tempo uno si toglie di dosso la maschera, diventa davvero difficile agire. Tutto diventa possibile. Perchè mille diventano le sue facce, mille le interpretazioni della realtà, e quindi mille sono le possibilità e mille le scelte.
E’ come un volo. E l’aria tra le ali deve certo terrorizzare.
Dunque che fare?
Occorre andare oltre l’idea delle sensazioni e percepire le sensazioni.
Occorre andare oltre le categorie.
Di fronte ad una donna che ti spiega con gli occhi tristi di quanto sia innamorata del suo uomo, andare oltre l’idea che ti stia mentendo e riuscire a sentire una persona a disagio.
Quando ci si toglie la maschera è terribile affrontare la realtà perchè nulla è più chiaro. Nulla è più chiaramente univoco, ma tutto diventa una personale scelta.
Anche decidere se un temporale sia l’ombrello dimenticato a casa o il freddo sulla pelle. O l’indirizzo perso del tuo unico contatto in una città che non conosci. Sta a te farlo.
La maschera ci culla, togliendoci la libertà, ma dandoci certezze. Codificazioni chiare di una realtà infinita.
Nella mia vita ho incontrato persone simili a me che erano bloccate, avvolte in fantasie culturali lanciate contro di loro da chi proprio non poteva capirli nè, in fin dei conti, voleva accettarli.
E’ come vivevere in una tana. A volte esci. Ma non la lasci per sempre. Ci stai vicino e ci giri attorno. Fai pochi passi e quando c’è qualche cosa che ti crea difficoltà ti ci reinfili subito.
Anche se sei libero, non lo sei. Perchè il tuo istinto è quello di reagire alle cose da dentro la tana. E’ il tuo unico modo di vedere e rapportarti al mondo.
Non sai come vivere negli spazi liberi della vita.
Sopportare il freddo, la vista dei maestosi alberi, contenere l’eccitazione quando indovini da che parte volterà il sentiero mentre ti lanci al galoppo e ti riscopri abile.
Ma la verità, è che la tana è dentro di noi.
In fin dei conti ogni uomo ne ha una e vive assieme agli altri in una più grande. E’ come il mito della caverna di Platone, dove gli uomini non possono che guardarne il fondo su cui sono proiettate le ombre.
Quelle ombre non sono altro che quelle degli altri uomini.
Credo che non ci guardiamo direttamente. L’unico modo di conoscere è conoscere se stessi e comprendere l’altro solo attraverso la similitudine con ciò che abbiamo imparato di noi.
Non sappiamo cosa ci sia fuori nè dalla nostra tana nè da quella in cui tutti viviamo.
Ma alcuni tendono a buttarsi fuori, altri a rinchiudersi dentro.
Alcuni, ciò che vedono devono conoscerlo, analizzarlo e capirlo fino in fondo. Mentre altri per capire, per analizzare devono prima agire, toccare e sperimentare. Alcuni, stanno nella tana, ammantati da un invincibile calore, affascinati da una promessa di infinita possibilità. Altri si gettano fuori e vagano soggetti alla miriade di sensazioni.
C’è chi per natura si leva la maschera. C’è chi la costruisce, la mantiene e la fa indossare.
C’è chi per natura torna nella tana anche quando non c’è più minaccia. C’è chi ne esce sempre e tenta sempre di far uscire gli altri dalla loro.
Come l’elettrone che gira intorno al suo asse in due versi opposti, così l’uomo alle domande della vita può chiudersi in se stesso o buttarsi fuori.
Eppure occorre trovare l’equilibrio di questi due modi così legittimi e così necessari.
Da tana e da praterie se fossimo animali, questa sarebbe l’irrimediabile distinzione. Ma siamo uomini e oltre la tendenza naturale abbiamo la volontà di migliorarci e agire per il giusto.
Togliere la maschera, avere il coraggio di essere nudi quando l’amore ci cerca. Buttarsi fuori dalla gabbia quando la risposta alla nostra sofferenza è una sensazione. Gettarsi dentro se stessi, quando invece la soluzione ad una sensazione è un idea. In un continuo equilibrio fluttuare tra le possibilità, scegliere e delimitare le proprie azioni, poi ancora fluttuare e ancora scegliere.
Tutto questo si chiama vivere. E tutto questo è materia di vita.
Ho capito che siamo qualcosa, oltre le aspettative di chi ci è attorno, dietro le paure che ci modificano, oltre l’ignoranza in cui viviamo, verso l’esperienza che ancora non abbiamo.
A volte dobbiamo fare un’azione a volte partorire un’idea. A volte di fronte al giudizio esterno dobbiamo rivolgerci in noi stessi e resistere alla tendenza di reagire. Altre dobbiamo reagire e resistere alla tendenza di rivolgerci in noi stessi.
Eccovi quindi questi i miei scritti.
Con pregi e difetti, con zone buie in cui trovar calore e spiragli da cui vedere il cielo.
Questi amici cari, sono gli anfratti della mia tana.
EMILY KARNAK “LONGEST”
L’HARDWARE, IL SOFTWARE, IL MONDO, L’UOMO. E LA PAZZIA.
Questo pezzo scritto nel 2007 lo dedico a tutte le persone affette da ludopatia. Con grande affetto.
Ho il pensiero che sia tutto un teatrino. Quello dell’uomo e i suoi affanni. I problemi della gente, dei più sono convenzioni, assunzioni. Sono speculazioni superficiali di niente.
E’ come se vivessimo in una sovrastruttura finta.
E’ come se ogni uomo fosse un dato e non un manipolatore di dati.
Vive una finzione, è calato in una realtà di software e ignora l’hardware che ne è la base fondante. La gente che odia, grida per strada, che uccide, non si rende conto che in realtà agisce in funzione di spinte più profonde, che la loro vita è mossa da motivazioni inconsce, invisibili, e che se solo percepissero la sottostruttura dei loro sentimenti, delle loro azioni, delle loro vendette, queste cose perderebbero valore.
D’altra parte la loro vita non potrebbe essere diversa da quello che è perché loro hanno un programma che li fissa in una sovrastruttura globale, finta.
Mi accorgo di questo. E’ così chiaro ai miei occhi. Gli ultimi saranno i primi, vuol dire: chi sarà contrario a queste convenzioni della società, chi si ribellerà a queste finte realtà, sarà emarginato in vita, ma lui andrà dritto nel cuore delle cose, negli ingranaggi del tutto, lui coglierà la verità. Scavalcherà il software e si calerà nell’hardware. E’ rischioso, si può fallire.
Ma il fallimento non significa morte fisica. Significa pazzia. Rottura del software personale.
Mettiamola così, ognuno di noi ha un software personale che gli permette di interfacciare con le altre persone e inserirsi nella società, il grande software globale, svolgendo un suo ruolo, riempiendo una sua posizione.
Poche persone, rifiutano il software e si spingono fino alle strutture hardware della realtà. L’hardware della realtà è il perché. Il software è il come. E così è anche per l’uomo. Non so se tutti riescono ad avvertire la sottostruttura hardware di tutte le cose, ma questa esiste. E se l’hardware si rovinasse, Il software come si modificherebbe? La pazzia centra qualcosa con questo? Cos’è la razionalità? Come funziona il cervello? E’ un sistema fisico, con una sua struttura specifica. Se la struttura viene modificata cosa succede a livello razionale. Io da fuori cosa vedo?
E un pazzo è un dannato? Non si può più recuperare? E’ arrivato nell’inferno? Oppure è pazzo dal punto di vista razionale, ma c’è ancora qualcosa di integro, che gli conferisce dignità, nonostante sia inutile alla società, e anzi alle volte sia una grave minaccia alle regole sociali?
Mi pare di avere sentito che il cervello funziona per una serie di tanti impulsi elettrici che ci fanno sentire e fare. Ci sono addirittura delle attività elettriche legate al sentimento dell’ euforia, dell’ansia, e la schizofrenia pure può essere legata a problematiche di tipo fisico del cervello.
E’ come un puzzle l’interfaccia software personale. Quella che ci lega agli altri e che ci inserisce nella società. Quando questa interfaccia si rovina, noi facciamo cose pazze, siamo difettosi:
“Molti pensano di voler ammazzare il capoufficio, il figlio indisponente, il padre ossessivo, la ragazza gelosa, il compagno di classe perfettino, ma è pazzo solo chi lo fa”. La società ammette che vi siano difetti dell’hardware, tanto non si vedono. L’importante è che non vi siano grane di interfaccia.
E se c’è un solo pezzo di puzzle mancante su milioni che compongono l’interfaccia? Un solo pezzo difettoso? Tu funzioni normalmente tutte le volte che non ti toccano quel tastino lì. E la probabilità è bassa, cazzo un tastino difettoso su milioni. Uno solo. Ma anche se fossero cinque, dieci, venti, sarebbe sempre una probabilità bassa. Ma se ti tocco quel tasto tu diventi un animale. Esce bestialità pura.
Così si chiama in natura questo livello hardware.
Io ti tocco quel tastino e tu mi ammazzi. Basta una cosa che non so per farti abbattere l’interfaccia razionale e farti emergere l’hardware.
Cazzo ma allora chi ha l’interfaccia difettata è pericoloso.
Ed esistono diverse tipologie di interfaccia in natura? Certo.
E per natura ce ne sono alcune più fragili delle altre? Dicono di sì.
C’è chi è più portato di altri ad impazzire? Per esempio chi ha una sensibilità particolare e un’abitudine alla riflessione e all’introspezione, rischia di accusare colpi più forti, e di intaccare il suo software più facilmente? Questo mi sorprende. Mi angoscia anche.
E i pazzi? I pazzi? Dico, noi non li capiamo e loro non riescono a farsi capire, ma dentro di loro c’è quella persona che erano? Intendo dire, c’è, dentro di loro, che sono pazzi, un loro sano intrappolato? O quelle persone sono irrimediabilmente compromesse? Del tutto e irreversibilmente perse, distrutte?
LA METAMORFOSI DEL GORILLA
Occhi profondi, pelo morbido e lucente. E’ appena nato: uno strano lupo.
Robusto e forte, cammina tra i lupi, neonati come lui. Rispettosi, attratti, ma intimamente intimoriti, avvertiti dalla verità della natura; nell’aria sussurrata.
Ecco, un lupo anziano, ringhiare inferocito.
La violenza della storia, caricata dalla sua diffidenza, colpisce e segna.
Stranolupo si ferisce, ma non cade. E’ piccolo, ma reagisce.
Vacilla il lupo anziano, nella mente.
Stranolupo cresce, cammina e cresce.
Gli spunta una strana criniera rossastra tutto attorno al capo e al collo, che lo copre fino alla spalle .
Stranolupo dalla criniera rossastra, cammina e cresce.
Ancora una volta, uno dei lupi , gli si scaglia contro e lo segna con una zampata.
Stranolupo si ferisce, reagisce e questa volta atterra l’aggressore.
Stranolupo dalla criniera rossastra cresce, cammina e cresce.
Le ferite passano, si rimarginano.
Trascorre le giornate a cacciare solitario.
Un giorno, alcuni lupi del branco si portano in gruppo attorno a lui e lo accerchiano.
Lui emette uno strano suono, che fa tremare e fuggire impauriti gli aggressori.
A quel punto il branco è ormai deciso:
spaventato dalla forza di Stranolupo, si organizza contro di lui.
Il giorno stabilito, nuovamente, tutto il branco circonda Stranolupo, e tra questi, uno dei gregari lo attacca.
Stranolupo più forte di un singolo lupo lo atterra. Un altro, e un altro ancora gli si scaglia addosso. Stranolupo li atterra uno dopo l’altro.
Si scaglia contro il muro di animali di fronte a lui e ne fa fuori a decine, ma sono troppi. Lotta strenuamente, ma infine viene vinto.
E’ ancora troppo giovane ed è solo.
I lupi gli risparmiano la vita, ma lo costringono a restare con loro e a partecipare alle attività del branco, a cacciare con loro e per loro.
Stranolupo si ribella per giorni interi..poi, li accetta.
Cresce tra i lupi e ne impara le regole, i comportamenti, i ritmi e con loro si identifica.
Si adatta e si inserisce nel branco. I lupi non disdegnano la sua presenza, tuttavia per loro è importante spegnergli gli istinti, così pericolosi per loro.
Stranolupo finisce per dimenticare la sua natura e col passare del tempo non trova più differenze con i lupi.
Passano anni e Stranolupo vive tranquillo, cacciando e vivendo col branco. Cresce e diventa grande.
E’ un lupo ormai, questo è il suo pensiero, il suo adattamento, ma c’è qualcosa ancora che lo lega al suo passato. Un disagio, una tristezza profonda.
Fosse stato un uomo sarebbe stata malinconia da poeta..
Il tempo passa e Stranolupo iniziò a stare sempre più male: risentiva i cambiamenti che il forzato adattamento aveva imposto alla sua natura. Soffriva.
In lui istinti primordiali riaffioravano e lo confondevano, portandolo lontano dal vivere di branco. Finchè un giorno stranolupò sparì, si nascose per giorni così che nessuno fu più capace di trovarlo. Poi, abbandonò tutti e iniziò a vivere solitario, errando nella foresta.
Un giorno, nella foresta.
“Ei tu, leone”.
Stranolupo non si girò, e un’aquila continuando a chiamarlo si avvicinò a lui, fino a che non gli fu di fronte. Appena davanti agli occhi gli disse: “che ci fai qui leone?”
Stranolupo non capiva cosa stesse dicendo quell’animale e rispose “vola da qualche altra parte corvaccio”
L’aquila sorpresa, volò via.
Stranolupo, infastidito dall’improvvisa invadenza, riprese a camminare riflettendo triste a quelle parole.
Leone?
Cosa significava? e perché gli aveva chiesto cosa ci facesse lì?
Pensava a queste cose quando..
…sentì un leggero fastidio sulla gamba.
Si girò e di scattò si tirò in dietro.
Davanti a lui c’era infatti una strana creatura simile ad un gorilla, ma più piccolo e con una strana coda lunga, senza peli e rossastra, che tutt’altro era men che morbida (Stranolupo l’aveva appena appurato), e finiva con uno strano pungiglione.
La strana creatura gridò: “Eì, guarda dove vai!” agitando la coda.
La coda era solcata da delle linee verticali che si susseguivano creando sezioni bombate e ovali. Stranolupo ricordava qualcosa, ma era confuso, incuriosito da quella forma nuova e sconosciuta.
“Cosa sei?” disse d’istinto.
L’animaletto guardandolo con un espressione buffa, pensoso rispose “cosa sono?..e chi lo sa. Un gorilla.”
“Una specie di gorilla?”
“Sì, credo. E tu? sei un lupo?”
“Sì credo”
“Una specie di lupo?”
“Sì”
“Strana quella criniera sulla testa, mai vista addosso a un lupo”.
“Già..sono uno Stranolupo”
Risero insieme.
Poi il piccolo gorilla dal pungiglione raccontò a Stranolupo la sua storia:
“Mi ricordo di essere nato orfano, e che una femmina di gorilla che aveva perso il suo piccolo, mi allevò come suo figlio”.
“Hai sempre avuto quella?” disse Stranolupo indicando la coda dell’animaletto.
“Sì, sempre. Ero l’unico ad averla nella mia famiglia. Ero il più piccolo dei miei fratelli e l’unico che l’aveva. Coi miei fratelli facevo fatica a starci. A loro non piacevo ed ero il più fragile, ma mi ricordo che mamma mi voleva un gran bene”.
Stranolupo seguiva il racconto interessato e molto partecipe. L’animaletto continuava:
“Io e mamma eravamo molto legati, entrambi eravamo davvero felici di stare insieme, ma presto dovemmo affrontare un problema: io ero troppo delicato rispetto al suo corpo possente e quando lei affettuosamente mi abbracciava, non riusciva a non farmi male e io d’istinto, sempre, rispondevo agitando questo mio pungiglione”.
“Strano pungiglione” rimarcò Stranolupo.
“..e la pungevo” disse lo strano piccolo gorilla dal pungiglione. “Lei mi amava e quell’abbraccio era per lei importante, unico mezzo di trasmissione del suo affetto. D’altra parte io non potevo fare a meno di fare scattare il pungiglione ogni volta che mi abbracciava.
Poiché quando ero piccolo, la puntura del mio pungiglione non poteva fare male al suo grosso corpo, entrambi accettammo di farci un po’ male per amore dell’altro. Ma crescendo il problema si ripresentò. Il mio pungiglione iniziò ad emettere un liquido strano e la mia puntura faceva sempre più male, fino a che un giorno, dopo il consueto abbraccio e la consueta puntura, mia mamma cadde per terra moribonda.
I miei fratelli si scagliarono contro di me, così il resto della famiglia. Io riuscii a scappare e da allora continuo a vagare solitario senza sapere nulla di mia madre. La ricordo esanime a terra.
Per lungo tempo fui gettato nello sconforto e nella piena disperazione. Pensavo al mio pungiglione, l’ho odiato! Pensavo a come fosse stata causa di tanto male. Quante notti mi sono addormentato pensando a come sarebbe stato bello se io fossi stato normale, come i miei fratelli, robusto e senza pungiglione. Proprio come loro. Quante notti ho desiderato di non avere avuto quest’anomalia..Ma poi, passarono gli anni e in me si susseguirono cambiamenti strani, uno dopo l’altro. Diventai sempre più piccolo, i miei muscoli delle braccia giorno dopo giorno stanno perdendo peli e diventano sempre più duri. Sta assumendo questo colore rossastro e mi è cresciuto dentro un vuoto, che mi tormenta, ma mi sorregge”.
“Anch’io avrei voluto vivere bene con i lupi che mi hanno allevato. Essere come loro. Poter accettare la caccia di branco”. Disse stranolupo.
“E’ per questo che il tuo fisico ricorda quello di un lupo? Sei stato allevato da un branco di lupi? ma non sei un lupo”.
Stranolupo gli rispose triste: “non so cosa sono..so solo che sono strano.”
“Non è un male esserlo. Guarda me, a me non dispiace essere così, in qualche modo riesco a fare tutto.”
“..ma io penso che comunque non sia normale avere quelle grosse braccia sproporzionate con questo corpo piccolo..”
“normale…” ripetè pensoso l’animaletto, “guarda”, disse ponendogli davanti agli occhi il braccio destro “sono convinto si stiano rimpicciolendo anche le braccia,..e stanno cambiando,..guarda attentamente”
Stranolupo notò una parte del braccio all’altezza del gomito, senza peli, di un colore bordastro lucente. Di quella che un tempo doveva essere una grossa mano restavano tre dita unite e confuse alla base in un unico corpo e al posto delle altre due c’era qualcosa come una pinza.
Era proprio strano. Quella creatura gli ricordava qualcosa…
Poi la creatura disse pensosa a Stranolupo
“…il mio pungiglione…non ti dice nulla?” iniziava a capire.
Stranolupo aspettò qualche attimo..i due sembravano seguire velocemente le stesse deduzioni, poi con stupore dissero assieme:
“uno scorpione!”
“…..io sono uno scorpione! Sto diventando uno scorpione!”
Entrambi ne conoscevano l’esistenza e la forma. Il piccolo Gorilla-Col-Pungiglione stava davvero trasformandosi in uno scorpione.
Lo Scorpione perciò, infine disse:
“Allora non sono strano, sta per compiersi finalmente la mia metamorfosi. Non sono mai stato come mia madre o i miei fratelli, l’ho sempre saputo”. Era emozionato il Neo-consapevole-Scorpione, con semplicità e spontaneità aggiunse: “Allora anche tu! tu sei..quello che sei, e lo sei per natura. E prima o poi lo scoprirai. Devi solo lasciarti…vivere, poi farà tutto natura. Vivi, aspettando il cambiamento come il mio!”.
E se Stran- Gorilla-Neo-Consapevole-Scorpione se ne andò contento lasciando Strano-Lupo pensieroso.
Stranolupo abbandonò lo scorpione, forte di una nuova verità. Non sapeva cosa egli fosse, ma aveva la certezza che non doveva avere più paura di esserlo.
Così, quel giorno, Stranolupo imparò dallo Stranoscorpione l’arte dell’adattamento, capì che non esisteva un animale migliore di un altro, ma ognuno era dotato nel più profondo di una straordinaria verità. Ognuno aveva dentro se, in qualche punto, dentro se, la capacità di vivere il grande cerchio della vita.
Capì che ogni animale se esisteva era perché aveva diritto di viverci in quel magico e splendido cerchio.
Stranolupo camminava in una rinata sicurezza, pensando che non importava sapere chi fosse,
ma esserlo.
LA RETE DEI PIGLIANCULO
“Per saper cos’è l’amore devi aver cantato e pianto Nelle lacrime e nel canto c’è la storia di ogni cuore…”. Ascoltando Carlo Buti… ho una idea, una percezione: c’erano tempi in cui l’individualità produceva cultura… quei tempi mi insegnano che il genio non è di uno solo ma può essere coltivato da tutti. Esistono istanti in cui Dio si manifesta e ci rende grandi e forti , inamovibili dalle leve del potere. Ci sono istanti in cui capisci che un conto è lo spirito, un altro è la razionalità. Un conto è l’individualità un altro è il riconoscimento sociale. un conto è la forza un altro è il potere. Un conto è il talento, un altro è la carriera. Un conto è il genio, un altro è la fama. Un conto è l’Uomo, un altro è il piglianculo. La rete dei piglianculo Quando lo prendi in culo, io so solo che è una brutta sensazione. Che non voglio provare. Ma colui che me lo mette nel culo oggi dice di averla presa nel culo a sua volta quando aveva la mia età. E chi la mette nel culo a me oggi, è chi l’ha presa nel culo alla mia età da chi probabilmente alla mia età l’ha presa nel culo. … Perché, si dice, che se la prendi nel culo alla mia età la potrai mettere nel culo quando avrai l’età di chi te la mette nel culo ora. Si forma la rete e così le cose vanno avanti. C’è una massima popolare che mi ha insegnato mio Zio: “se sei martello batti, se sei incudine statti”. Funziona perciò così. Solo che succede tutto in modo più dinamico e protratto nel tempo, nella storia. E’ uno spirito della società che scivola di generazione in generazione. C’è un periodo in cui sei incudine, se ti fai battere con pazienza poi nel tempo potrai avere la possibilità di diventare martello e allora sarai tu a battere. Ma di diventare martello nel tempo, per carriera, per anzianità, nessuno te lo assicura. Potrebbe restarti il dolore di essere stato battuto senza però mai raggiungere il tempo in cui sarai tu a battere. Qui un’altra massima popolare mi aiuta ad esprimere il concetto: “Col culo rotto e senza cerasa”. Ma allora, qui la mia conclusione: perch’è dovrei battere gli altri? E soprattutto, perché dovrei rischiare la beffa per me inaccettabile, dell’avere il culo rotto e senza cerasa? Dico subito che se anche tu, caro lettore, ti stai facendo questa domanda sarai tra quelli che non sarà mai un leader di questa rete. Questo sistema dell’incudine e del martello è il paradigma sociale su cui si costruisce tutta la rete dei piglianculo. E chi è nella rete, leader della rete dei piglianculo, fa scouting naturale; per colpo di fulmine inconscio, quasi magico. Quando incontra il suo simile se ne accorge, lo bastona, quasi con affetto , esercita il suo potere contro logica e giustizia e ne prova la fedeltà assoluta. Fedeltà alla posizione di superiorità, mai alla logica o alla dignità. Non è scritto, non è detto, ma è quasi immediato capire chi è adatto ad entrare nella rete, per chi c’è dentro. Chi ha la stoffa del piglianculo, lo capiscono inequivocabilmente. Procedono a metterla in culo in serie, con una doppia funzione, addomesticare ed eleggere. Addomesticare chi non è per natura portato a comprendere la logica che chi è superiore fa e indirizza a suo piacimento, ed eleggere, come dicevo, chi invece per natura è portato a prenderla in culo senza fare tante tragedie. Si fa scouting dei prossimi leader di questa speciale rete. E dipende tutto dalla prima sfiorata. Primo sfoggio di potere, prima reazione. C’è chi accetta ed è in prima linea, il piglianculo leader , chi accetta e va in fila, il piglianculo di massa, e chi sbrocca, da di matto e si scaglia contro il potente, l’Uomo. Ecco quest’ultimo è uno come me, che si troverà sempre a scrivere pressappoco pensieri di questo tipo, Il primo invece farà carriera e rispetterà sempre e soltanto il potere. Riderà probabilmente di scritti di questo tipo. Ed anche tu, che credi di capirmi, probabilmente o prima o poi ti renderai conto di essere un piglianculo. Una parte della rete. Solo se sei giovane capirai veramente questi scritti, se sei adolescente.. ..finché sarai tale, perché poi crescerai e sarai con molta probabilità un piglianculo di massa. Pochi saranno leader, e pochissimi, Uomini. I piglianculo di massa, saranno da sempre combattuti tra il dolore e lo spirito. Tra il calcio in culo e l’ispirazione. Potrebbe darsi che ci sia un tempo dei piglianculo e uno degli Uomini. Non vorrei scomodare Cristo e Pilato, (se non ti risuona nulla, caro lettore, ti dico Socrate e Meleto), ma è da sempre così: l’Uomo esalta, ispira, il piglianculo, affossa, equilibra. Uno sobilla, l’altro calma. Gli Uomini cercano sempre di creare reti di Uomini, e i piglianculo le reti di piaglianculo. Chi vince da sempre lo decide il caro e puro piglianculo di massa. La democrazia o la folla. Questo è solo uno scritto, un anfratto della realtà, in cui l’Uomo che è in me si ferma a prendere le sue sembianze su un foglio bianco. Ma ora, torno fuori.. E nell’eterna lotta per non essere inghiottito nella rete dei piglianculo, là fuori cioè, ogni scatto di reni contro il sicuro, lo scontato, sarà la volta in più in cui potrò riconoscermi Uomo.
IL FOLLETTO CHE VOLLE ANDARE SULLA TERRA
C’era una volta nell’Olimpo un piccolo folletto figlio di un Dio del bosco.
Questo esserino viveva tra gli dei e da tutti era voluto bene e apprezzato, sebbene lui, fosse a tutti gli effetti, un eccezione vistosa tra quegli esseri bellissimi dalle sembianze umane. Lui, infatti, era piccolino, e il suo corpo era ricoperto di peli. Era, se pur minuto, di corporatura robusta, con muscoli del petto e delle braccia scolpiti e spessi. I capelli erano rosso rame e si innalzavano arruffati e dritti in testa. Aveva un petto possente e spalle larghe. Occhi neri, scuri come la notte e un muso animale che ricordava quello di un gorilla. Aveva mani corpulente e forti, i piedi invece erano sostituiti da zoccoli taurini. Il suo sedere era completamente glabro e spiccava, ad effetto, nel mezzo di quella sua folta pelliccia. Su di esso, vi era una coda simile a quella di uno scorpione.
Il folletto era intelligente, abile nei giochi e nelle attività dell’Olimpo, ed imparava velocemente. Era pure molto curioso e un giorno, mentre col permesso del padre, sceso sulla terra, passeggiava nascosto tra i folti pini di un bosco, vide con suo grande stupore una bellissima donna dai capelli ricci e neri che si rinfrescava nelle acque di un piccolo lago. Il folletto ne fu colpito a tal punto che chiese al padre che cosa fosse quell’essere tanto simile alle dee dell’olimpo, eppure, ai suoi occhi così tanto di più attraente.
Il padre, sentendo le sue parole e vedendo la sua eccitazione, decise di spiegargli tutta la verità.
Il padre aveva avuto il folletto da una donna e dunque il piccolo essere era per metà divino e per metà umano. E pure lo stesso padre, aveva vissuto una lunga vita sulla terra, fra gli uomini.
Così, gli spiegò la sua storia, dicendogli che quella forte attrazione che aveva avuto vedendo una donna era normale, in quanto lui stesso era per metà uomo.
Il piccolo folletto espresse il suo desiderio di andare a vivere sulla terra, ma il padre gli spiegò che sulla terra le sue doti non sarebbero state accettate e che nessuno in quel luogo aveva le sue sembianze.
Il folletto però insisteva e incitava il padre a trovare una soluzione. Così che suo padre escogitò una possibile idea. C’erano nell’Olimpo dei corpi di vecchi eroi, belli e possenti come dei, ma pur sempre dalle sembianze umane e dotati di sentimenti. Il folletto avrebbe potuto indossare uno di quei corpi e così poter scendere sulla terra. Mai avrebbe dovuto lasciarsi sfilare di dosso il corpo da uomo perchè gli uomini mai avrebbero potuto capire e per lui sarebbe stato pericoloso.
Così, il piccolo folletto, scelse un corpo, lo indossò e scese sulla terra.
Giunto sulla terra scordò tutto:
con gli occhi del folletto non vedeva che il corpo dell’uomo e dunque, non poteva che pensare e sentire che come un uomo. Infatti, né il padre ricordava, né il folletto poteva sapere, che l’idea pura, quello che di fatto erano gli Dei, scesa in un corpo di uomo è lì intrappolata e assalita da una miriade di sensazioni ed emozioni che ne fanno dimenticare la natura divina al suo interno.
Così, il folletto, o meglio l’eroe, iniziò la sua nuova vita. Dimentico dei suoi più originari piani, ma pur sempre, a qualche livello, sensibile della sua essenza divina.
Dunque: un folletto, un eroe e l’uomo.
Il folletto era un dio e non conosceva né pietà né nulla che non appartenesse alla logica.
L’eroe invece non comprendeva che abnegazione e ideale.
E l’uomo? Lui aveva questo orientamento a guardarsi dentro con cui aveva conosciuto il folletto. E a volte subiva forti passioni che lo portavano a negare qualsiasi limite, e attraverso le passioni aveva scoperto l’eroe.
A poco a poco l’eroe e il folletto si ritrovarono ben distinti dentro di se, e l’uomo faceva sempre più fatica a vivere i suoi giorni terreni.
A volte quando uno stolto offendeva l’uomo, il folletto usciva fuori piccolo piccolo, col suo culetto spelacchiato brandiva un’ascetta in mano e con un piglio irato si slanciava contro lo stolto. Pronto ad ucciderlo. Accadde un giorno che ne uccise uno mettendo in gravissimi guai l’uomo.
Altre volte invece, quando l’uomo incontrava barriere era l’eroe che lo trascinava verso l’idea di terre inesplorate e da scoprire allontanandolo da qualsiasi possibilità di attesa.
“Dove vai?” Gridava alle volte l’uomo verso il folletto. “Dove vai?” gridava ripetutamente contro l’ottusa passione del folletto, che con le zampette corte faceva ridere quando correva, perchè sculettava
“Cosa devo fare dunque?” Gli chiedeva allora alle volte il folletto.
“Non uscire. Non uscire mai”. Rispondeva l’uomo, confuso.
“Ma se in te giace la mia grandezza che fare?” Pensava però poi.
“Non mi trascinare, non mi mettere in pericolo!” Diceva invece alle volte all’eroe.
“Ma tu mi rendi grande”. Pensava tra se e se.
Ai suoi occhi l’eroe e il folletto gli erano migliori. Il folletto era potente e libero. L’eroe era cieco e onnipotente. L’uomo non sentiva di avere nient’altro valore al di là di quelle due presenze dentro se.
A lui rimaneva il rossore delle gote e l’irrefrenabile desiderio.
Dal rossore era impietrito e del desiderio era schiavo.
Riusciva ad agire solo quando il folletto agiva e riusciva a muoversi solo quando l’eroe decideva di muoversi.
– Dunque l’uomo chi è? –
Legati tra loro
gli uomini,
custodiscono
la loro verità
nell’amore
l’uno,
dell’altro
MOBİLİTA’ (LO SLANCİO)
Facoltà di Economia, Milano.
Il vociare comune di parole uguali, come quelle facce livellate dalla stessa espressione di sobrietà, rallentavano le tue azioni.
Ti sei alzato e hai chiesto:
“Professore, mi scusi. Lei crede che per uno studente, oggi, finita l’università in un paese come l’Italia sarebbe meglio espatriare? Oppure rimanere e cercare di cambiare qualcosa da dentro il sistema?”
Qualche minuto per la traduzione e lo hai sentito dire:
“La mobilità in Italia è una delle più basse al mondo. Vi consiglio di andare via. Magari poi tornare per cercare di cambiare le cose. Ma se volete provare a fare carriera andate via”.
Mobilità.
Che voleva dire?
Per te?
Quel tuo compagno di classe delle elementari a cui la maestra fece fare il castello di cartapesta che poi era stato esposto alla festa di classe con i genitori. Avresti capito se ti avesse ricordato quanto fu deluso quella volta il tuo entusiasmo e quanto confuso il tuo senso del vero quando alla tua insistenza di voler farlo anche tu, ti risposero: “lui è più bravo”. La tua incomprensione allora, quel senso di disagio e lontana sottomissione ogni qual volta che lo rivedevi, quel tuo compagno di classe. O quando, a quell’alone di magico e di destino si affiancavano nuove informazioni come figlio del primario ‘tizio’ o nipote del sindaco ‘caio’.
Non pensavi a tutto questo ma tutto era chiaro ad un certo livello.
Un improvviso filo di pertinenza e chiarezza si tendeva e riportava a galla sentimenti di aspirazione, entusiasmi, bocciature e mortificazioni. Come dei sogni brevissimi e sfilacciati ti giungevano alla ragione pensieri sull’inferno e il peccato originale, sulla dignità e sull’umiliazione.
Se qualcuno in quel momento, accortosi del tuo ghigno trascendentale ti avesse chiesto “ma a cosa pensi? Hai capito cosa ti ha risposto?” ti avrebbe sicuramente sentito dire:
“Sì. E’ chiaro. I sorrisi. Sono i sorrisi della gente”.
E ovviamente non avrebbe capito. Perché per capire bisognava chiederti di quel tuo compagno delle elementari, ricordare il suo sorriso e la tua delusione.
Avrebbero dovuto capire che la civiltà non è fatta di leggi e norme, ma di sorrisi, di legami e di rapporti. E se a sorridere sono sempre quelli, ecco, che avrebbero capito assieme a te cosa significasse “mobilità”.
Ti tolgono le speranze. A poco a poco ti abitui ad accettare i volti dei prescelti di successo.
A poco a poco inizi a credere ai prescelti di successo. Ti sforzi di vedere del fascino in persone vuote e senza carisma. Ti ritrovi a chiedere cosa tu abbia di speciale. Perché ci deve essere qualcosa di speciale che ti porti via dal piatto di questa bilancia bloccata. E lo sai.
Ora, la tua ansia aveva una motivazione, un nome. E tutto era chiaro ma non per questo facile.
Che fare?
Per l’ennesima volta, pensare?
Per l’ennesima volta?
Questa volta no. Questa volta occorre agire.
Non ce la fai più a ridimensionare quell’onda che a volte monta e pare sia arrivata a salvarti.
Come?
Se gli strumenti non te li hanno dati.
Se le persone che hai incontrato hanno fatto in tutti i modi di incasellarti assieme a loro, e sotto di loro?
Se hanno fatto di tutto per portarti via la libertà di lottare per i tuoi bisogni e soprattutto, per la verità?
Già, perché la bestemmia allo spirito è quella che raggiunge il tuo senso del vero e per l’egoismo del potente, lo minaccia, lo infragilisce e infine, lo spezza in più parti. Immobilizzando il tuo giudizio e annientando la tua libertà.
I pensieri affollano la mente mentre i tuoi piedi scivolano sulla scalinata del sottopassaggio. Uno dopo l’altro si superano. Mentre con lo sguardo fai scorrere velocemente i numeri dei binari.
Davanti agli occhi, d’un tratto tua madre. Tua sorella. Tuo fratello malato.
Ti senti oppresso. Senza futuro. Predestinato e bloccato.
Poi, ricordi le parole di quel tuo amico che anni fa è partito per l’America e non l’hai più sentito.
“Arriverà un momento in cui dovrai capire” ti aveva detto.
“L’andare via non è un problema di organizzazione, ma di preparazione, e poi, di ‘salto’: devi essere disposto a lasciare tutto per l’intuito”.
E quando gli avevi parlato di tua madre sola, che aveva bisogno di te, ti aveva risposto:
“E’ straziante tagliare certi legami fatti di pelle e carne. Ma il primo dovere ce l’hai verso la verità.
Devi comprendere i tuoi progetti e metterti nelle condizioni di realizzarli”.
Ti sembra di vedere il suo sorriso sereno. Ricordi la sua mano sulla tua spalla. Ti sembra quasi di sentirne il calore.
L’altoparlante annuncia:
“sul 8° binario, è in partenza il treno per Barcelona Estacio Saint”.
Brucia quell’onda.
E’ tornata. Finalmente.
Non stai pensando a nulla.
E’ l’istinto animale di sopravvivenza che ti muove.
Che vada oltre il solito contratto con il senso di normalità e di conformità.
Che sappia veramente cosa vale e per cosa spendere tutte le energie,
che ti faccia uscire dalle file, sopportare la vergogna, i giudizi e portare avanti uno slancio.
Scorrono le pareti del sottopassaggio. Hai superato il cartellone col numero del tuo binario.
Sul tuo viso non si legge più il solito sorriso ben calibrato e dosato, nei tuoi occhi una luce antica.
Vai!
Non pensare a nulla.
Vai.
(O meglio, lasciati andare).
Entri nel vagone appena approdato al binario e ti senti come un marinaio che sale su una nave da esplorazione, verso un nuovo mondo.
L’eccitazione enorme che ti trovi nella pelle e nelle orecchie e negli occhi, ti lascia un varco istantaneo che raggiunge la ragione e ti dice
che sei partito.
LA DONNA ANGELO
1. Ho incontrato una ragazza, ieri
Ieri, ad un pub dove si balla caraibico, ho incontrato una ragazza.
Entro. I miei zii mi precedono. Si dirigono ad un tavolo e salutano.
Al tavolo, due uomini e tre donne. Io saluto due delle donne e i due uomini.
“Ciao”
“Ciao”
“Piacere Giovanni”
“Francesco, piacere”
“Luca”
“Piacere”
“Piacere, Anna” una donna
“Piacere ”
“Piacere, Patrizia” un’altra donna
“Piacere”
La donna che non ho saluto è lei. Si chiama Imma, lo scopro più avanti mentre parla con mio zio.
Imma è bella, d’un bello che te ne accorgi. Di una bellezza che esige reverenza.
Mia zia si siede accanto a lei, e io accanto a mia zia.
Mia zia si fa un po’ più avanti, e mi pare di vedere con la coda dell’occhio che lei mi guarda. Mi giro. Mi guarda.
Può essere?
Provo a vedere se mi risponde allo sguardo un’altra volta. Mi giro ancora. Mi guarda.
Voglio vedere se si sofferma, quando incrocia con i suoi i miei occhi, oppure se li distoglie subito.
La guardo. Ci guardiamo..Si sofferma.
Per tutta la serata aspetto il momento in cui posso scambiare occhiate.
Passa il tempo, mia zia si alza, io mi alzo, lei si alza, io mi siedo di nuovo allo stesso punto e guardo verso la pista, sorseggiando il mio liquore alla liquirizia.
Lei è due passi avanti a me, è in piedi, ogni tanto si volta a guardarmi, e mi sorride.
Passa il tempo, e non le dico niente.
Come al solito non riesco a fare la prima mossa.
Fino a che..Lei si avvicina..Io sul bordo della panca, appoggiato con la schiena al tavolo, guardavo le coppie ballare..
“Scusa”
“Sì?”
“Mi faresti passare per piacere?”
E indica dietro di me.
Mi volto e vedo un mucchietto di cappotti.
Bene, attacca bottone.
“Ti serve qualcosa?” “Te la prendo io”
“Sì Grazie”
“Dimmi, cosa ti serve?”
Le sorrido, lei rispondendo al sorriso dice:
“Il cappotto. Sai, ho freddo”
“Si?…Hai freddo?”
…
……
Le prendo il cappotto e glielo do, sempre sorridendo.
“Timidezza di cazzo” penso tra me e me.
“Scusa, già che ci sei puoi prendermi anche la borsa?”
Bene, un’altra occasione per sentire la sua voce.
Dai, non tacere, non prenderle la borsa e basta. Di qualcosa, cerca di parlare! “Qual è, questa?”
“Sì”
“Ecco tieni”
Di nuovo in silenzio.
Scambio di sguardi.
Si riempie il cuore.
Poi.
Cercavamo di incrociare gli sguardi un’altra volta, per poi magari iniziare a parlare un po’ più a lungo. Cercavamo momenti in cui potevamo scambiarci un sorriso.
Il fatto è che già “qui” ero in difficoltà. Perché lei mi guardava, e io ne ero incantato, felice..ma perché allora mi veniva di voltare lo sguardo?
Allora..
Prendo coraggio, la fisso, lei come se avesse un radar, si volta all’improvviso verso di me e risponde allo sguardo. Sto per girare di scatto la testa, ancor prima di pensare di non farlo..Torna la ragione, blocco il collo, e mantengo i miei occhi nei suoi. Ci sorridiamo.
Gioia.
Ok, ora dovrei dirle qualcosa.
Niente.
Mi alzo, e vado a sedermi su una panchina a bordo pista. Passano 5 minuti.. Lei è al mio fianco.
Siamo vicini, ci troviamo sempre vicini. Sempre.
Al solito, io mi giro, lei si gira, ci guardiamo, sorriso, e silenzio.
Mi giro, si gira, ci guardiamo, sorriso, e silenzio.
Fino a che..
“Ei tu”
Un tizio, la chiama.
“Sì?”
Risponde educatamente Imma.
“Vieni qui”
Io non capisco molto cosa stia succedendo, forse si conoscono, forse il tizio a bisogno di qualcosa…
Poi il tizio insiste perché Imma gli si avvicini, ma lei non ci va e quello…
“E’ tuo marito?” mi indica.
“Sì” dice lei.
Che succede? Mi ha messo in mezzo.
Le chiede se fossi suo marito.
“Sì, è mio marito”.
Ei! Forse ho capito, la sta importunando, è ubriaco, lei ora vorrebbe che la aiutassi..Ho l’opportunità di conoscerla..Ma guarda un po’, le classiche scene da film.
Io e Imma ci guardiamo, ci sorridiamo.
Lui mi chiede:“E’ tua moglie?”
La guardo, cerco il permesso di rispondere che è mia moglie, lei mi fa cenno di sì, perciò rispondo “Sì” “Si, è mia moglie” Inorgoglito.
Lui si avvicina “E’ bellissima”
Mi alzo in piedi (tutto il precedente l’ho fatto da seduto).
“Non ho mai visto niente di così bello nella mia vita” prosegue il tizio.
Io guardo negli occhi Imma, “E’ vero”, rispondo.
Lei mi sorride.
Comunque, il tizio se ne deve andare, le da fastidio, e poi ormai rompe le palle, ci siamo conosciuti si può dire..
“Davvero è tua moglie?” “Sì, sì, è mia moglie”
Pausa.
“Come ti chiami?” lo interrompo, cambio discorso.
Mi guarda perso.
“Come ti chiami?”
“Toro”
“Toro?”
“Sì sono di Trento, abito a Trento”
Ma che centra. “Sì?”
“Anche tu non sei di qui”
Ma che centra. “Sì, sono di Mantova”
“Mantova?”
Chiacchiericcio.
“Tu lo sai già che cosa vuoi?”
“Cosa?”
“Tu lo sai già che cosa vuoi?”
Ma che cosa vuole dire? “Non ho capito bene”
“Tu lo sai già, che cosa vuoi?”
Che imbarazzo, ma che cazzo vuole? “In che senso?”
“Da bere, posso offrirti da bere?”
Aaah! “No grazie, ho già bevuto, ti ringrazio”
Sorrisi. Sorrisi.
Dai ora via. Vai via.
“Ciao ciccio”
E lo allontano.
“Ciao,..è bellissima eh? bellissima. Sei fortunato tu, ma davvero sei il marito?”
“Sì sono il marito”
E vai.
“Sei fortunato tu, sei fortunato”
Allontanandosi.
“Ciao”
Restiamo soli io e Imma.
Ci guardiamo, un po’ imbarazzati.
Ora sono legittimato ad attaccare discorso.
“Grazie” mi dice lei.
Io sorrido.
Non riesco ad uscire dall’imbarazzo.
Di istinto: “Mi ha messo in imbarazzo quello. Cazzo” E quasi subito mi pento di aver detto cazzo.
Le volgarità no! Comunque, va bene la via della schiettezza. E’ inutile nasconderlo, ero imbarazzato. Meglio essere sinceri.
“Ma io ho paura, che vuole, mi fissa ancora”
“No dai stai tranquilla”
Ma che dire a una ragazza che ti dice così? Non so proprio cosa dire.
“Vuoi andare a fumare fuori?” Mi chiede lei, che probabilmente mi aveva visto precedentemente andare a fumare fuori con mia zia.
“Sì”
Le offro io una sigaretta.
Ed usciamo.
Toro, mi sa che ci segue con lo sguardo.
“Ma tu non sei di qui”
“No, ho gli zii, i parenti tutti qui, ma io vivo a Mantova”
“Ah bello”
Non so che dirle. In testa mi viene da pensare a quando andavo a cimare..e mi capitava di percorrere in lungo i filari a piedi, nel terreno fangoso, con gli stivaloni di gomma.
E d’improvviso peggioro. L’imbarazzo, trasforma le mie frasi in monosillabi.
“Io faccio psicologia”
“Psicologia!”
“Si ho finito i tre anni e ora vorrei specializzarmi in psicologia dello sviluppo”
“Che bello”
“Mi piacerebbe lavorare con i bambini”
“Belli i bambini”, trasognato.
Finito di fumare la sigaretta rientriamo.
Il resto della serata, si svolge sulla falsa riga della prima parte, con l’eccezione che finalmente ballo. Con mia zia. E con una ragazza che compiva gli anni quella sera. 18.
Che bella sensazione, sentire quel corpo da diciottenne fresca fresca, morbido e delicato muoversi sensualmente sotto le mie mani…
Tornato a sedere, sono vicino a Imma.
Ci troviamo sempre vicini.
Alla fine della serata ci salutiamo.
“E tu quando parti?”
“Il 2 o il 3”
“Ah allora ci vediamo ancora”
“Scì”
Mi da un bacio, e va via.
Lei è bella. Probabilmente è il tipo per cui fanno a botte per conquistarla.
Mentre ero con quel tizio, Toro, pensavo: “Che faccio?”, Sentivo un istinto unico di fondo, un’unica soluzione: “picchiarsi”. Mi sentivo come un animale, che deve conquistare la sua femmina.
“L’unica cosa da fare è picchiarsi. Vogliamo la stessa donna” pensavo.
“Qui ci si deve picchiare e chi vince la conquista”.
E se perdo? Facile che perda, io sono ansioso e a volte vado nel pallone, e quando capita mi comporto in modo strano, potrei perdere anche con un bambino.
Poi ho pensato a una cosa. E ho cercato di mantenermi salda questa consapevolezza per tutta la sera. “Non sono io che devo conquistare lei. E’ lei che deve scegliere”.
Andiamo, non è come tra gli animali! Noi abbiamo gli stessi istinti sì, ma è diverso. Noi non dobbiamo scontrarci teste contro teste, corna contro corna, per conquistare la femmina. Tra di noi se una donna non ti vuole, non ti vuole.
Bene, allora stai sereno….?
Devo capire però se è possibile farsi non scegliere da una donna che ti vuole.
2. Il numero è nel fiore
Io, mio zio, e un amico di mio zio, fumiamo una sigaretta fuori dal locale.
Sto pensando a Imma, spero che venga stasera. Stasera le parlo di più, la conoscerò meglio, e la inviterò ad uscire per domani.
Mi giro. Eccola, è arrivata.
Che bella che è.
E’ con due amiche e due ragazzi, uno è quello dell’altra volta,..Giovanni, mi pare.
Si avvicinano, lei mi guarda da lontano.
“Ciao”. Scandisco muovendo la bocca mentre la saluto con la mano. Me ne pento subito.
Arriva.
“Ciao”
“Ciao bella”
Ci baciamo.
“Come stai?”
“Bene,….bene”.
Ci guardiamo, ci sorridiamo.
E taccio.
Loro si mettono in fila alla biglietteria.
Io, mio zio, e l’amico di mio zio, finiamo la sigaretta e ce ne andiamo.
Sento lei, che dice:
“Ah voi avete già fatto il biglietto?”
Mio zio e l’amico sono già entrati, perciò è rivolta a me.
Io mi ero già incamminato, faccio finta di non averla sentita, non mi volto neppure ed entro.
Ero come un sorcio che fugge dal gatto. Pensare che mi stesse parlando mi aveva già fatto emozionare.
Entriamo.
Entra.
Ci vediamo. Viene vicino a me. Si siede al mio fianco.
Io non dico niente, come al solito ci scambiamo sguardi, ma non dico niente.
Non mi viene niente da dire, da dirle.
Passa un ora. La guardo ballare con le altre persone e sono ingiustificatamente geloso.
Mi alzo dal mio posticino, 20 passi e la raggiungo.
La guardo.
“Vuoi?” le chiedo tendendole la mano.
Sempre con nervosismo e fretta, storpio quasi la voce per l’emozione.
Insomma, la invito a ballare.
Sento il suo seno sodo contro il mio petto. Ha un corpo splendido, e lo sento muoversi sotto le mie mani. E’ bellissimo, se ci penso perdo il ritmo.
Finisce la canzone. Voglio farne un altro, mi sento come un bambino ingordo che finisce il primo gelato e vuole il secondo.
“Non so se si può, ma, facciamo anche questo?”
“Sì, perché no?”
“Non lo so, magari non si può ballare di seguito con la stessa persona”.
“No, no”. Mi tranquillizza.
L’altro ballo lo faccio completamente ammutolito.
Non le dico niente per tutta la canzone. Finisce anche questo. Ci sorridiamo. Mi accarezza i fianchi, io pure, e lei mi dice “bravo”.
Me ne ritorno al mio posticino.
L’amico di mio zio si siede vicino a me e attacca bottone
“Attacca sulla fascia” e ride.
“Cosa?” Sorrido.
“Attacca sulla fascia, lascia perdere il centro campo” e ride.
Vicino a me c’è mio Zio, ride anche lui, mi volto verso di lui con espressione interrogativa.
“Che dice?”
“Attacca sulla fascia,..con Imma. Fai poco a poco. Come stai facendo.” Mi risponde.
“Costruisci sulla fascia: nel senso che, quando una squadra ha il centro campo forte, crea gioco in verticale e va dritto in area a fare gol. Quando invece non ce l’ha forte si muove sulla fascia e poi fa il cross centrale. Fai gol così”. Completa l’amico di mio zio.
Che forte. Ridiamo insieme.
Però passa un’altra ora e io non riesco a prendere nessuna iniziativa costruttiva.
Mi alzo e vado a fumare con mio Zio.
“Non so che fare, mi sono bloccato” gli dico.
“E perché?”
“Perché mi piace!”.
“Ma stai tranquillo, invita a ballare qualche altra ragazza…hai visto Anna?”.
“No. Io voglio solo lei”
“France, non fare così. Ti dico una cosa: ‘le donne, sono tutte puttane’. Non devi sentırti dipendente. Lo capiscono. Poi sono cazzi tuoi. Quando percepiscono che ti tengono in mano, non ti scelgono mai. Hai finito di essere uomo. Guarda me, io sono stato a letto con un sacco di donne, non perché ero un adone, ma perché ci sapevo fare. Io, le facevo ridere ed ero sicuro di me stesso. Stai sereno, non essere teso. Sei teso quando siete insieme. L’ho notato..Devi stare sereno.”
“Lo so”.
“ Se sei teso risulti pesante. Le fai scappare. Stai sereno, se non è lei che importa. Ce ne sono un sacco stasera”.
Mi guardò.
“Il fatto è che mi sembra di fare un torto a lei”.
Risposi io.
E lui quasi disgustato:
“Ma che dici Francè”.
Sì è proprio così. Perché se Imma è la mia Lei, anche se lei non lo sa, io dipendo da lei. E’ qualcosa che va oltre il “ballo”, che va oltre quella serata. Se io dipendo da lei, non posso che aspettare lei. Non me ne frega niente degli altri, e se io non sto con lei, mi intristisco. Ecco perché mi deprimo: non riesco a stare con lei, e mi intristisco.
Bè la serata prosegue come era iniziata.
Ogni volta che lei mi si avvicina o che mi dice qualcosa, io non le dico niente.
Cresce l’imbarazzo per le mie scene mute.
Sono in stand by. E non ce modo di farmi ripartire.
Per l’ennesima volta mi si siede vicino, e mi guarda.
Io taccio.
Passa un po’ di tempo in silenzio.
D’improvviso…penso: “ma dai, ha ragione mio zio, stai sereno, non stare così teso, attacca bottone, e poi se non è lei, sarà un’altra..”
Mi giro, mi tendo verso di lei, mi è venuta in mente una cosa da dirle.
Vorrei chiederle una cosa, qualsiasi cosa..improvviserei in realtà.
Lei, in quel momento si volta dall’altra parte e chiede una cosa a mia Zia.
Mi disimpegno, e smorzo un risolino di imbarazzo.
Forse è meglio ho risparmiato qualche considerazione banale.
Si rigira.
Sento una bachata, le chiedo: “ Siamo ancora in tempo per farla?”
“Sì”
Andiamo a ballare.
Balliamo, la canzone finisce, senza che nessuno dei due dica niente facciamo anche l’altra.
Finisce la seconda canzone, ci guardiamo, ci sorridiamo.
Mi sento triste, sta passando l’ennesima occasione per parlarle, per rendermi interessante ai suoi occhi, per l’ennesima volta sto facendo scena muta.
“Vuoi andare a fumare una sigaretta”
Ultimo escamotage.
“…Verrei volentieri, ma c’è mio fratello, lui non sa che fumo”
“Ah” quindi l’altro ragazzo è suo fratello.
Non dico niente.
Devo sembrare un demente da fuori.
Chissà che facce che faccio.
“Va bene”
Che tristezza.
Ma dai. Fra, insisti un po, che imbarazzo. Dille del numero, dille che vuoi lasciarle il numero per sentirvi nei giorni successivi ed uscire insieme. “Senti prima che te ne vada, ti va se ti lascio il mio numero, così possiamo sentirci, che dici?”
“Va bene”
Pffuu. Che fatica.
Vado a sedere.
Mia zia si gira e mi dice:
“Qui fanno caraibico fino alle due”
“Sì?”
Sono sorpreso. Perciò tra un po’ finisce il caraibico.
“E poi che fanno?” le chiedo.
Lei: “Mettono discoteca”
Oh no, non so se mi metta più a disagio ballare caraibico o le musiche da discoteca.
“E noi che facciamo?”
“Stiamo”. Mi strizza l’occhio.
“Eh, eh” rispondo io e le sorrido.
E che cazzo. Di male in peggio.
Io mi deprimo con la discoteca, il 60 per cento delle volte capita così.
Mi sono sempre sentito a disagio e frenato nelle discoteche.
Bè aspettiamo.
Via.
Prima canzone da discoteca. Non ballo.
“Non vai a ballare Francesco?”
“Dopo zia.”
Passa un ora, sono completamente bloccato. Non ballo.
Braccia conserte e gambe accavallate, chiari messaggi di ostilità verso l’ambiente.
Guardo Imma ballare, ogni tanto lei si gira e incrociamo lo sguardo.
Sono triste e depresso.
Anna, l’amica dei miei zii, che avevo conosciuto il giorno prima, si avvicina e mi invita a ballare,
Io le dico che non mi va. Insiste, dice che è tanto per scherzare un po’.
Mi alzo. Come mi alzo, Imma mi vede e mi fa cenno con la mano di andare da lei. Io ci vado, come un cagnolino verso la scodella del mangiare. Mi metto a ballare, vicino a lei, mentre penso che la vorrei stringere tra le braccia e ballare con lei appiccicata al mio corpo.
Passa un 10 minuti, e io mi ritrovo a ballare goffo dall’altra parte della sala. Rallento, rallento, mi fermo. Mi rintristisco.
Mi appoggio al muro vicino all’uscita.
Guardo ancora Imma ballare.
Passa l’amico di mio zio, lui sta ballando e si diverte.
“No! Ti ho detto in fascia, lungo la fascia. Che fai ti sei messo del tutto in porta?” Ride e se ne va.
Nel frattempo Imma, è con un ragazzo con cui sembra essere abbastanza in confidenza. Beve un drink che probabilmente le ha offerto lui.
Passo un ora appoggiato a quel muro e ormai guardo nel nulla.
A un certo punto una ragazza si appoggia al muro a fianco a me.
C’ero già io appoggiato al muro. E si è messa vicino a me.
Inizio a pensare.
Sembra anche lei a disagio e annoiata.
Lo siamo entrambi in questo ambiente.
Lei è’ sensibile, come me. Pensa che sia tutto inutile questo ballare, come lo penso io.
Magari è lei. La ragazza che devo incontrare non è Imma, è lei.
Passa un dieci minuti e io mi decido ad attaccar bottone,
“Scusa, come mai non balli?”
Spallucce.
“Non ti piace la musica?”
Sì intuisco io, lei non mi risponde
“Neanche a me”. Aggiungo.
Non risponde niente.
Forse, è più triste di me.
“Dovrei avere della corda in macchina, se vuoi possiamo andare ad impiccarci insieme..”
Non afferra, mi guarda male, e se ne va.
Passano altri dieci minuti, poi mio zio:
“Andiamo?”
“Andiamo” rispondo io.
Vado a salutare Imma.
“Ciao, io me ne sto andando.”
Lei mi guarda sorridendo, forse sta pensando al fatto del numero.
“E’ il tuo ragazzo?” Indicandogli il ragazzo che le aveva offerto da bere.
“No, no”
“Senti te lo lascio il mio numero?”
Le chiedo, e i miei occhi si trasformano subito in quelli di un cucciolo che implora di sceglierlo.
“Il fatto è che è una situazione complicata” Mi risponde.
“Comunque ci vediamo prima che tu parta” Mi dice lei.
“Non lo so, mi sarebbe piaciuto vederti fuori da questi ambienti. Magari fare un giro insieme, per conoscerci. Se ogni volta che vengo a ballare, devo fare le performance di stasera non esco più.”
”Noo.” Risponde lei, come fanno le maestre con i bambini quando fanno il broncio e minacciano di non voler giocare più.
“Voglio dire, non sono riuscito a sbloccarmi, ma mi piacerebbe stare con te in una altro contesto”
Più calmo ora, e più sciolto.
“Lo so. E’ che c’è questo ragazzo di mezzo”
“Ma ti do di nascosto il numero.”
Insisto quasi infantile.
Sorride.
“Mi spiace”
“Va bene. Ti saluto”
Baci.
Vado a prendere la mia giacchetta, mio zio e l’amico di mio zio che avevano seguito la scena, sorridono. L’amico di mio zio, si avvicina e mi dice “Colpo di testa finale eh?” e ride grasso.
Mentre prendo il maglione e la giacchetta, mi viene la solita sensazione del colpo di frusta.
Io lo immagino un po’ come il corrispettivo umano del pungiglione dello scorpione.
Il classico colpo all’improvviso, come lo slancio di reni che quando sei in fondo in fondo, ti fa fare il salto finale. Il fatto è che il più delle volte peggiora le cose, e alla ricaduta scendi ancora più in basso.
A pensarci bene questo mio colpo di frusta finale mi ha sempre messo in imbarazzo.
Sono cose che non fanno tutti e ogni volta finisco per vergognarmene.
Insomma.
Mi incammino al bar, chiedo un tovagliolino. Vado alla cassa e chiedo una biro. Scrivo sul tovagliolino il mio numero di cellulare, restituisco la biro. Mi guardano.
Mi metto in un angolo della sala, col tovagliolino faccio un fiore, petali, stelo e foglia.
Metto il fiore in tasca e mi avvicino a Imma.
Io: “Ti saluto allora”
Ci baciamo, io le porgo di nascosto il fiore.
Mamma mia come ero nervoso.
Lei è sorpresa, forse l’ho messa a disagio.
Lei: “No, no”
Io: “Mettilo nella borsetta”, a bassa voce insistendo.
Lei: “Va bene”.
Io: “Dentro c’è il mi numero”, aggiungo velocemente.
Non le do tempo di rispondere e me ne vado, inciampando tra la gente. Mi sentivo un ladro in fuga, ero emozionantissimo.
Lascio lì anche la sciarpa nuova che mi hanno regalato il giorno prima. Non mi viene neppure in testa di rientrare per prenderla.
Fuori c’è mio Zio.
Mi appoggio alla macchina e accendo una sigaretta.
Gli spiego cosa ho fatto, mentre fumo fino a metà la sigaretta. Gliela passò con le mani che tremavano.
Lui mi vede forse per la prima volta nel mio classico stato confusionale da eccesso di emozione. E mi tranquillizza.
“Stai buono francè, hai fatto una cosa buona”
Non si può vincere volontariamente l’attenzione di una donna.
Essere scelto da una donna, non vittorie di lavoro, sportive, o altro: questo è il vero successo. Essere scelti da una donna.
Io desidero con tutto il cuore che mi scelga. Che scelga me.
La vera priorità: l’amore.
Spero che riesca a vedere al di là della mia goffaggine, e che rimanga attratta da me ugualmente.
Sento, che questa ragazza, è quella che stavo aspettando.
..in realtà lo penso ogni volta che ho a che fare con una ragazza che mi piace.
E questo pensiero mi fa cadere nell’ansia, perché penso sempre: “E se è la donna che aspettavo, se è lei, se è finalmente quella, non posso trattarla come una qualsiasi. Che devo fare?? La tratto in modo speciale. Ma se questa donna è Lei? E se io non riesco a conquistarla o Lei non mi sceglie, o se in quel momento non sono in grado di interessarle, che succede? La perdo per sempre? La perdo per sempre! Perdo per sempre l’amore! L’unica realtà nella vita che può rendermi davvero felice! Che guaio!”
Quanti problemi nascosti in uno sguardo, in una intuizione.
La mia domanda è questa: “Cosa bisogna fare quando incontri quella donna che può renderti felice, davvero felice. Può darti qualcosa che non hai mai provato, può davvero cambiarti la vita”.
Pensare tutto questo, mentre lei ti guarda è imbarazzante. Ti senti quasi in colpa nei suoi confronti, perché la carichi di questa responsabilità. Tu pensi tutto questo mentre la guardi, mentre lei ti guarda…
che segreto,
che romanzo.