COME CAINO E ABELE

Caino e Abele

“Questo pezzo lo dedico a Manuel Mangili, ispiratore e coautore inconsapevole, oltre che mio primo lettore”. L’autore.

Pofka e Martino.

Due maschere, due ruoli carnevaleschi.

Uno figlio di un fisico polacco, l’altro di un pentito siciliano. 

Entrambi figli di emigrati. Entrambi laureati in lettere e senza un lavoro fisso.

Amici da sempre. Fin da quando nel cortile si contendevano le attenzioni del più simpatico del gruppo. Il più “splendido” e ambito.  Paradigma dell’italiano “sorriso e battuta” disarmanti.

Ora, i più “splendidi” erano loro.

Come se non fosse stato per caso si erano ritrovati in un momento della loro vita in cui dubbi e domande erano comuni. Vivevano una sintonia inusuale  per due solitari guerrieri ribelli come loro, sempre stati contro tutti e contro tutto.

Da quando si erano reincontrati si trovavano più o meno ogni notte allo stesso pub. Seduti al bancone, con un liquore in mano e a parlare liberi di ogni cosa. Analizzavano il mondo intero, senza preconcetti o inibizioni. 

Ma in fin dei conti sembravano impersonificare due visioni, due concezioni definitivamente opposte.

Quella sera, dopo essersi confessati di essere uno “un idealista”, l’altro “un pragmatico”, Pofka e Martino si ritrovarono a discutere sul bene e sul male.

  

Martino: “Il male è più di successo del bene. Il cattivo, lo scorretto è più efficace del corretto”.

“Però, sai cosa fa veramente la differenza?” lo interruppe Pofka.

Martino: “Cosa?”

Pofka: “Le donne”.

Martino: “Le donne?”

Pofka: “Sì, le donne. Se le donne non scegliessero il potere, ma la nobiltà e la lealtà di un uomo, se scegliessero la giustizia,la libertà e la generosità, allora il potere non coinciderebbe più col successo. L’uomo di successo sarebbe il povero, nobile e forte. Non il ricco spregiudicato e potente. Se  ti scelgono le donne sei di successo, e sei di successo perchè ti scelgono le donne”.

Martino, interessato dall’interpretazione originale dell’amico, disse con un ghigno curioso:“Può essere”.

Pofka: “Se ci fossero due persone, due rappresentanti di due stili di vita complementari e opposti: uno della spregiudicatezza, della cattiveria finallizzata alla realizzazione dello scopo e l’ottenimento del potere, l’altro dell’ideale, della nobiltà e della forza”.

“Un po’ come Caino e Abele” lo interrupe Martino.

Pofka: “ Sì, Caino e Abele. E che entrambi fossero da sempre i due rappresentanti ultimi di due regni, di due modi di vivere da sempre in contrasto e naturalmente opposti; se questi combattessero, a mani nude in un combattimento finale in cui chi perde perde tutto..e in cui le regole sono: “si combatte solo a mani nude”..mi segui?”

Martino: “ti seguo”

Pofka: “..nella durata di tutto il combattimento Abele usasse le mani nude e dominasse Caino per forza e abilità,fino a che però Caino non tira fuori un arma (contro le regole) e lo neutralizza, vincendo.

Martino: “Caino vincerebbe il potere”.

Pofka: “Sì, ma se tutte le donne presenti su la faccia della terra in quel momento si schierassero dalla parte di  Abele, rinunciando a vivere nel regno di Caino, fino a morire piuttosto…Se scegliessero la nobiltà, la lealtà e la correttezza di quell’uomo sconfitto dalla cattiveria, dalla slealtà e dalla spregiudicatezza di Caino. Se scegliessero quell’uomo che se pur ci fosse stata la possibilità di barare e combattere armi pari contro il baro, non l’avrebbe mai fatto per idealismo, coerenza e correttezza eroiche,  il vincitore alla fine sarebbe comunque lui. Perché le donne l’hanno scelto e perciò l’hanno reso il vincitore. Caino, rimarrebbe solo. Col potere, ma il suo istinto accuserebbe un grosso colpo. Dallo stomaco, qualcosa raggiungerebbe il suo cervello facendo leva sulla sua etica. A poco a poco perderebbe le forze. E a quel punto o si adatta o muore. O diventa “buono” o muore. E invece, nella vita succede il contrario: Abele si adatta a Caino dopo aver ricevuto il grosso colpo. Ed è Caino il paradigma più vincente”.

Martino: “Quindi c’è differenza tra potere e forza..Chi raggiunge il potere con qualsiasi strada, può soggiogare il forte, fare leva sul suo istinto di sopravvivenza e modificarlo”.

Pofka: “Sì”.

Martino: “Ma allora non solo le donne, ma anche chi è al potere può decidere quale paradigma far dominare”.

“Proprio così” disse Pofka soddisfatto, sorseggiando il suo liquore.

“L’uomo, che se ne farebbe del potere senza le donne? Ogni cosa che fa è per conquistare la donna. Ogni singola cosa la fa per la donna. Il poeta che scrive poesie specializzandosi nella sua sensibilità, il business-man che crea e trasforma business facendo soldi, persino il filosofo che vive nei suoi pensieri, ognuno di loro agisce in quel modo”,

Si fermò a sorseggiare ancora una volta il suo whiski e riprese: “Perché in un momento della sua vita ha percepito che quello era il modo per conquistare la donna. Per il resto, chi agisce schiacciando e barando, lo fa sempre per la donna: per mantenerla a se”.

Mentre erano assorti in quei discorsi, Pofka si soffermò con lo sguardo su una coppia appena dietro Martino.

Il ragazzo, capelli radi e corti, stempiatura e piazzola evidenti, indossava un maglioncino a V coi rombi fucsia e color salmone. La ragazza, bionda, capelli corti, occhi verdi e un neo sulla gota destra, sembrava guardare Pofka già da un pò.

Forse, aveva sentito i discorsi che lui stava facendo assieme a Martino.

A un certo punto, mentre i loro occhi erano gli uni negli altri,  la ragazza piano piano gli mostrò il dito medio.

Continuarono a guardarsi negli occhi. Per un minuto circa filato, finché Pofka non disse:

“Perché?”

Lei rispose muovendo le labbra:

“Sfigato”.

Martino chiese a Pofka cosa stesse succedendo e Pofka, dopo aver ripetuto “Perché?”, spiegò velocemente a Martino che una ragazza lo fissava con un’ “espressione di dissenso”.

Lei continuava a guardarlo.

Poi, dopo altri minuti che si fissavano Pofka le disse:

“Possiamo stare così tutta la serata. Che hai? Ti piacciono i miei occhi?”

Lei fece spallucce.

I suoi, Pofka, li trovava splendidi.

“La adoro” disse a Martino,  “mi fissa e mi sfida. Io la adoro”.

“Che cazzo dici Pofka?”

“E’ splendida. Mi ha offeso. Mi sta sfidando, ma la adoro. Non so neppure il perché mi stia facendo questo. La adoro. La adoro. Lei lo sa.

Vedi? quello che stavamo dicendo: sa quello che sono, sa che la voglio e mi mostra il medio. Lei sa tutto e lo capisce, non so come, ma lo capisce. Io la voglio, e in qualche modo lei lo sa. E’ con quel senza palle anonimo che ha attaccato lite con te mercoledì alla fiera del libro ricordi?”.

“Già. E’ il suo ragazzo?”

“Eppure non si sono scambiati neppure una carezza per tutta la serata”.

“Fatto sta che si accompagna con quello”

“Comune, senzainfamiasenzalode, insulso e pure bruttino”. Disse Pofka, e aggiunse:

“Oi, lei ha fatto spallucce e mi continua a fissare”

“Sprechi il tuo tempo con me? Guarda il tuo ragazzo, no?”. Disse Pofka alternandosi tra le riflessioni comuni con Martino e l’interazione con la ragazza.

“Mi guarda. Che begli occhi, la adoro. E’ splendida. E’ splendida”.

All’improvviso Pofka si alzò, sotto gli occhi curiosi e attenti di Martino. Si fece spazio tra le sedie e raggiunse il tavolo della biondina.

La guardò e le disse:

“Hai ragione a mandarmi a fanculo, e mi accodo a te: mi mando anch’io a fanculo. E sai perché?

Perché appartengo a quel genere di persone che per timidezza non si avvicinano mai a un tavolo di un pub per dire con cortesia e stile a una ragazza come te, che la trovano bellissima, la più bella donna che abbiano mai incontrato.

Io  mi faccio coraggio, e ora,

mi sento di chiederti scusa a nome di tutta questa categoria,

perché non agiamo.

E alla fine, vi costringiamo ad uscire con uomini vuoti e senza fascino”.

A quelle parole Pofka guardò il tizio ‘senzainfamiasenzalode’ dritto negli occhi, lui accennò una reazione di finto orgoglio, ma si rimise a cuccia non appena vide dietro di Pofka, Martino, spostare di riflesso la sedia. Pronto a raggiungerlo.

Pofka concluse:

“E se mi mandi a fanculo, forse è perché tutto questo, tu già lo sai”.

Tornata la quiete.

Fatta pace col senzainfamiasenzalode amico del propretario del pub amico di Pofka e Martino.

Uscita la coppia senzainfamiasenzalode-biondina.  

I due amici continuano a discorrere.

Martino: “Caino e Abele.”

Pofka: “Caino e Abele. Li posso percepire con chiarezza nel mondo. L’uomo di successo è necessariamente Caino. Chi ha successo non può nella sua storia non avere usato ‘cattiveria’, che è in assoluto efficace alla sopravvivenza.Abele, inteso come chi rifiuta sempre il male, perisce. E’ il più debole, non godrà della sua famiglia e della dolcezza delle donne sensibili e timide, che mai si esporranno.Caino sì. Caino farà una famiglia, prenderà con prepotenza e sicurezza la donna, strappandola a qualche Abele timido e incapace di agire. Avrà figli da cui sarà amato. Sarà leader di gruppi di cui sarà stimato e che lo narreranno alla storia come un uomo capace e di valore. Vivrà abbastanza a lungo per diventare il buono, cambiato dall’amore, oppure solo per la storia: morirà come Ser Ciappelletto, santo per i posteri”.

Martino: “Perciò, la storia la fanno i Caino”.

Pofka: “Sì. Gli Abele, timidi, introversi, emotivi, sensibili, gentili e premurosi, incapaci di agire, moriranno soli e sconosciuti. Al massimo, subiranno la storia e ne saranno modificati in uomini acidi e rancorosi. Disillusi e senza amore. Moriranno da Caino agli occhi del mondo”.

Martino: “Perciò non c’è spazio per il bene in questo mondo?”

Un nodo difficile da  sbrogliare.

E con questo nodo si salutarono, e andarono a dormire. 

Sono le quattro del mattino. Pofka sta dormendo ormai da un’ora. All’improvviso sente il telefono squillare.

Martino: “Eureka.”

“Che c’è?” rispose assonnato e pacioso Pofka, riconoscendo la voce di Martino.

….

Un attimo di silenzio e Martino esordì:

“Ma come puoi definire uno, ‘Abele’, con certezza?”

Aspettò un attimo, e un pò confuso Pofka iniziò a parlare: “Ad esempio io, penso con pietà e compassione a tutte le persone deboli che subiscono l’invadenza…la prepotenza dei più forti. Ho simpatia per il più debole. Non agirei mai con forza nei confronti di un debole e piuttosto di calpestargli i piedi, me li farei calpestare….”

Martino: “Ma non è umano! Non puoi andare verso il dolore consapevole. L’uomo rifugge il dolore. Essere buoni non lo puoi volere. Finiresti per non fare male agli altri, ma, su tutti, distruggeresti te stesso. E se siamo figli di Dio, stai facendo male a un figlio di Dio. Potresti dire che sei buono nel pensiero, vivendo nell’ideale, ma nell’azione puoi far male. Esattamente come me che sono più pratico. Ma non lo saprai mai. Mentre potrei dirti, che io, che penso a volte cattiverie, ho agito bene in alcune situazioni. Tu rifuggi il fango per principio, “che è male” giusto? perché sei abituato al bene. Ma non è detto che quando, rifiuti ciecamente il fango, ‘pulendoti’, non lo rigetti in faccia agli altri. Non è detto che non risulti fonte del loro male”.

Pofka: “Ho capito.”

Martino:  “Bisogna agire, secondo ciò che si ritiene giusto, consapevoli che siamo limitati”.

“Occorre essere come bambini”. Rispose Pofka ormai del tutto sveglio e pienamente partecipe della nuova discussione.

Martino: “Già, ma il concetto è che essere bambini non significa essere buoni. Fare e pensare sempre la cosa buona,  non è così. Non lo è. Essere come bambini significa lottare, piangere, gridare per ciò che si vuole, che si crede giusto. Con la propria limitata visione. Non pensare al tutto, al destino..a chi è buono e chi è cattivo..Sono pensieri di Dio. Occorre agire, all’interno del tuo piccolo mondo e cercare il meglio..del “qui” e dell’ “ora”, per il tuo piccolo mondo”.

Pofka: “Già. Il bambino non vive nel passato, ne nel futuro, il bambino cerca sempre il modo migliore..in quel momento, in quella situazione”.

Martino: “L’essenza più vera è quella del fanciullo, che crescendo ci fanno credere di dover abbandonare. E quando sarai come un bambino, non vivrai nel passato ma nel presente!”

 

Mezz’ora dopo..Questa volta è il telefono di Martino a squillare interrompendogli il sonno. 

“Li ho sognati”.

Ovviamente era Pofka.

“Chi?” rispose assonnato ma pacioso Martino.

“Caino e Abele”.

“davvero?” disse Martino ridendo felicemente.

“Sì. E si abbracciavano”. Rispose altrettanto felicemente Pofka.

“Abele diceva ‘Ti prometto che non ti farò più pesare la saggezza e il mio idealismo, e proverò ad imparare da te ad essere più pratico’. E Caino gli rispondeva  ‘Ti prometto che cercherò di insegnarti la praticità, e di imparare da te ad essere più altruista’. Alla fine, ‘Ti voglio bene Caino’, ‘Ti voglio bene fratello mio’.

 “Notte Martino”

“Notte Pofka”

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MI CHIAMO EMILY

Vorrei condividere questo pezzo con tutte le persone che si sono sentite “diverse” in qualche momento della loro vita. 

Mi chiamo Emily, sono una sociologa di origini tedesche che vive a Istanbul da tre anni.

Ho vissuto in diverse città d’Europa e ne ho assorbito la cultura.

Mi considero una delle tante donne occidentali cresciute con un vuoto di verità e spiritualità che nè solo le fedi religiose nè le sole dissertazioni filosofiche potevano colmare.

Avevo un vuoto fatto di ricerca, tenuto aperto da una chiara e onesta ostinazione nel sapere chi fossi.

L’amore per la verità mi impediva l’accesso alle convenzioni sociali che spesso tengono in piedi le scelte umane e le equilibrano.

Così, sono passata da un lieve disagio percepito a pelle ad una chiara preoccupazione di non appartenenza.

E ho scoperto nei miei problemi individuali, un tentativo di risposta generale.

Già perchè ho pazientato, ho ricercato e infine ho scoperto di non appartenere ad un’intera cultura.

Ho capito che l’identità di un individuo non è slegata da quella di un gruppo, ma che spesso ne subisce orientamenti e delimitazioni.

L’idea di essere diversi da quello che sembra essere diventato il tuo ruolo in quel luogo, è percepito come un dramma. Qualcosa di esagerato e da fuggire. Perchè in fin dei conti l’equilibrio che portano con se l’appartenenza e la somiglianza, mette in luce la verità della diversità come una scelta sconveniente.

Perciò si accetta di vivere con un lontano e costante disagio, ma con la sicurezza di non esser soli. Almeno, esteriormente.

Ma io credo che ogni uomo abbia una sua vocazione e che sia suo dovere agire per riconoscerla. Capire che quel disagio provato non è obbligato e non costituisce la vita. Anzi, addirittura, che se noi soffriamo privatamente, agire per stare meglio è un dovere sociale. Perchè non possiamo stare bene se tutti non stanno bene. Cioè, se non diventiamo la persona migliore che possiamo essere.

Presto ho capito che da sempre esistono espressioni, modi, interpretazioni dei gesti umani e dei traguardi della civiltà, che variano e che risultano relativi se visti in “lontananza”.

Occorrerebbe viaggiare, confrontare diverse società, diversi modi di esprimere le stesse esigenze e i differenti modi a cui in diverse parti del mondo si è giunti per risolverle.

Così da comprendere che al di là degli strumenti e le interpretazioni umane quello che rimane è appunto l’esigenza.

Mi sono perciò portata in un posto dove potessi agire in sintonia col mio essere senza dovere fingere una maschera.

A poco a poco i miei pensieri trovavano aderenza con la realtà. La gente vedeva ciò che io vedevo, e nella loro storia raccontavano ciò che io avrei raccontato. Mi sono sentita finalmente di appartenere ad una umanità. A poco a poco mi sono riconosciuta sotto la maschera che portavo e ho ritrovato me stessa.

La maschera ti da chiare caratteristiche. Pregi riconosciuti. Limiti, altrettanto riconosciuti.

Ti dà la possibilità di scegliere chiaramente ciò che si può e non si può fare.

Inoltre, quanto più è chiara e unica, tanto più sono limitate le possibilità, ma chiare le scelte che dovrai fare. La maschera è semplificativa di un idea, un insieme di caratteri ed è univoca. E’ un univoca affermazione sulla realtà.

Io ad esempio, ho una cugina, e anche lei si chiama Emily.

Quando ci ritrovavamo a casa dei miei nonni, mi ricordo che mia nonna quando aveva bisogno di prendere qualcosa dalla mensola della cucina mi chiamava per aiutarla. Per distinguerci, quando entrambe le rispondevamo, specificava scherzosamente “the longest”, perchè tra le due io ero la più “lunga”.

Agli occhi delle altre persone siamo spesso maschere, ed è un dato di fatto.

Più è la sintonia e l’amore, più abbiamo la possibilità di attenuare ed eliminare queste maschere. Ma semplificare, generalizzare, ritagliare alcuni aspetti e focalizzarci su altri è sempre una tendenza a cui noi tutti ricorriamo quando si tratta di rapportarci l’un l’altro.

Certo è che se dopo tanto tempo uno si toglie di dosso la maschera, diventa davvero difficile agire. Tutto diventa possibile. Perchè mille diventano le sue facce, mille le interpretazioni della realtà, e quindi mille sono le possibilità e mille le scelte.

E’ come un volo. E l’aria tra le ali deve certo terrorizzare.

Dunque che fare?

Occorre andare oltre l’idea delle sensazioni e percepire le sensazioni.

Occorre andare oltre le categorie.

Di fronte ad una donna che ti spiega con gli occhi tristi di quanto sia innamorata del suo uomo, andare oltre l’idea che ti stia mentendo e riuscire a sentire una persona a disagio.

Quando ci si toglie la maschera è terribile affrontare la realtà perchè nulla è più chiaro. Nulla è più chiaramente univoco, ma tutto diventa una personale scelta.

Anche decidere se un temporale sia l’ombrello dimenticato a casa o il freddo sulla pelle. O l’indirizzo perso del tuo unico contatto in una città che non conosci. Sta a te farlo.

La maschera ci culla, togliendoci la libertà, ma dandoci certezze. Codificazioni chiare di una realtà infinita.

Nella mia vita ho incontrato persone simili a me che erano bloccate, avvolte in fantasie culturali lanciate contro di loro da chi proprio non poteva capirli nè, in fin dei conti, voleva accettarli.

E’ come vivevere in una tana. A volte esci. Ma non la lasci per sempre. Ci stai vicino e ci giri attorno. Fai pochi passi e quando c’è qualche cosa che ti crea difficoltà ti ci reinfili subito.

Anche se sei libero, non lo sei. Perchè il tuo istinto è quello di reagire alle cose da dentro la tana. E’ il tuo unico modo di vedere e rapportarti al mondo.

Non sai come vivere negli spazi liberi della vita.

Sopportare il freddo, la vista dei maestosi alberi, contenere l’eccitazione quando indovini da che parte volterà il sentiero mentre ti lanci al galoppo e ti riscopri abile.

Ma la verità, è che la tana è dentro di noi.

In fin dei conti ogni uomo ne ha una e vive assieme agli altri in una più grande. E’ come il mito della caverna di Platone, dove gli uomini non possono che guardarne il fondo su cui sono proiettate le ombre.

Quelle ombre non sono altro che quelle degli altri uomini.

Credo che non ci guardiamo direttamente. L’unico modo di conoscere è conoscere se stessi e comprendere l’altro solo attraverso la similitudine con ciò che abbiamo imparato di noi.

Non sappiamo cosa ci sia fuori nè dalla nostra tana nè da quella  in cui tutti viviamo.

Ma alcuni tendono a buttarsi fuori, altri a rinchiudersi dentro.

Alcuni, ciò che vedono devono conoscerlo, analizzarlo e capirlo fino in fondo. Mentre altri per capire, per analizzare devono prima agire, toccare e sperimentare. Alcuni, stanno nella tana, ammantati da un invincibile calore, affascinati da una promessa di infinita possibilità. Altri si gettano fuori e vagano soggetti alla miriade di sensazioni.

C’è chi per natura si leva la maschera. C’è chi la costruisce, la mantiene e la fa indossare.

C’è chi per natura torna nella tana anche quando non c’è più minaccia. C’è chi ne esce sempre e tenta sempre di far uscire gli altri dalla loro.

Come l’elettrone che gira intorno al suo asse in due versi opposti, così l’uomo alle domande della vita può chiudersi in se stesso o buttarsi fuori.

Eppure occorre trovare l’equilibrio di questi due modi così legittimi e così necessari.

Da tana e da praterie se fossimo animali, questa sarebbe l’irrimediabile distinzione. Ma siamo uomini e oltre la tendenza naturale abbiamo la volontà di migliorarci e agire per il giusto.  

 

Togliere la maschera, avere il coraggio di essere nudi quando l’amore ci cerca. Buttarsi fuori dalla gabbia quando la risposta alla nostra sofferenza è una sensazione. Gettarsi dentro se stessi, quando invece la soluzione ad una sensazione è un idea. In un continuo equilibrio fluttuare tra le possibilità, scegliere e delimitare le proprie azioni, poi ancora fluttuare e ancora scegliere.
Tutto questo si chiama vivere. E tutto questo è materia di vita.

Ho capito che siamo qualcosa, oltre le aspettative di chi ci è attorno, dietro le paure che ci modificano, oltre l’ignoranza in cui viviamo, verso l’esperienza che ancora non abbiamo.

A volte dobbiamo fare un’azione a volte partorire un’idea. A volte di fronte al giudizio esterno dobbiamo rivolgerci in noi stessi e resistere alla tendenza di reagire. Altre dobbiamo reagire e resistere alla tendenza di rivolgerci in noi stessi.

Eccovi quindi questi i miei scritti.

Con pregi e difetti, con zone buie in cui trovar calore e spiragli da cui vedere il cielo.

Questi amici cari, sono gli anfratti della mia tana.

EMILY KARNAK “LONGEST”

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MOBİLİTA’ (LO SLANCİO)

Facoltà di Economia, Milano.

Il vociare comune di parole uguali, come quelle facce livellate dalla stessa espressione di sobrietà, rallentavano le tue azioni.

Ti sei alzato e hai chiesto:

“Professore, mi scusi. Lei crede che per uno studente, oggi, finita l’università in un paese come l’Italia sarebbe meglio espatriare? Oppure rimanere e cercare di cambiare qualcosa da dentro il sistema?”

Qualche minuto per la traduzione e lo hai sentito dire:

“La mobilità in Italia è una delle più basse al mondo. Vi consiglio di andare via. Magari poi tornare per cercare di cambiare le cose. Ma se volete provare a fare carriera andate via”.

Mobilità.

Che voleva dire?
Per te?

Quel tuo compagno di classe delle elementari a cui la maestra fece fare il castello di cartapesta che poi era stato esposto alla festa di classe con i genitori. Avresti capito se ti avesse ricordato quanto fu deluso quella volta il tuo entusiasmo e quanto confuso il tuo senso del vero quando alla tua insistenza di voler farlo anche tu, ti risposero: “lui è più bravo”. La tua incomprensione allora, quel senso di disagio e lontana sottomissione ogni qual volta che lo rivedevi, quel tuo compagno di classe. O quando, a quell’alone di magico e di destino si affiancavano nuove informazioni come figlio del primario ‘tizio’ o nipote del sindaco ‘caio’.

Non pensavi a tutto questo ma tutto era chiaro ad un certo livello.

Un improvviso filo di pertinenza e chiarezza si tendeva e riportava a galla sentimenti di aspirazione, entusiasmi, bocciature e mortificazioni. Come dei sogni brevissimi e sfilacciati ti giungevano alla ragione pensieri sull’inferno e il peccato originale, sulla dignità e sull’umiliazione.

Se qualcuno in quel momento, accortosi del tuo ghigno trascendentale ti avesse chiesto “ma a cosa pensi? Hai capito cosa ti ha risposto?” ti avrebbe sicuramente sentito dire:

“Sì. E’ chiaro. I sorrisi. Sono i sorrisi della gente”.

E ovviamente non avrebbe capito. Perché per capire bisognava chiederti di quel tuo compagno delle elementari, ricordare il suo sorriso e la tua delusione.

Avrebbero dovuto capire che la civiltà non è fatta di leggi e norme, ma di sorrisi, di legami e di rapporti. E se a sorridere sono sempre quelli, ecco, che avrebbero capito assieme a te cosa significasse “mobilità”.

Ti tolgono le speranze.  A poco a poco ti abitui ad accettare i volti dei prescelti di successo.

A poco a poco inizi a credere ai prescelti di successo. Ti sforzi di vedere del fascino in persone vuote e senza carisma. Ti ritrovi a chiedere cosa tu abbia di speciale. Perché ci deve essere qualcosa di speciale che ti porti via dal piatto di questa bilancia bloccata. E lo sai.

Ora, la tua ansia aveva una motivazione, un nome. E tutto era chiaro ma non per questo facile.

Che fare?

Per l’ennesima volta, pensare?

Per l’ennesima volta?

Questa volta no. Questa volta occorre agire.

Non ce la fai più a ridimensionare quell’onda che a volte monta e pare sia arrivata a salvarti.

Come?

Se gli strumenti non te li hanno dati.

Se le persone che hai incontrato hanno fatto in tutti i modi di incasellarti assieme a loro, e sotto di loro?

Se hanno fatto di tutto per portarti via la libertà di lottare per i tuoi bisogni e soprattutto, per la verità?

Già, perché la bestemmia allo spirito è quella che raggiunge il tuo senso del vero e per l’egoismo del potente, lo minaccia, lo infragilisce e infine, lo spezza in più parti. Immobilizzando il tuo giudizio e annientando la tua libertà.

I pensieri affollano la mente mentre i tuoi piedi scivolano sulla scalinata del sottopassaggio. Uno dopo l’altro si superano. Mentre con lo sguardo fai scorrere velocemente i numeri dei binari.

Davanti agli occhi, d’un tratto tua madre. Tua sorella. Tuo fratello malato.

Ti senti oppresso. Senza futuro. Predestinato e bloccato.

Poi, ricordi le parole di quel tuo amico che anni fa è partito per l’America e non l’hai più sentito.

“Arriverà un momento in cui dovrai capire” ti aveva detto.

“L’andare via non è un problema di organizzazione, ma di preparazione, e poi, di ‘salto’: devi essere disposto a lasciare tutto per l’intuito”.

E quando gli avevi parlato di tua madre sola, che aveva bisogno di te,  ti aveva risposto:

“E’ straziante tagliare certi legami fatti di pelle e carne. Ma il primo dovere ce l’hai verso la verità.

Devi comprendere i tuoi progetti e metterti nelle condizioni di realizzarli”.

Ti sembra di vedere il suo sorriso sereno. Ricordi la sua mano sulla tua spalla. Ti sembra quasi di sentirne il calore.

L’altoparlante annuncia:

“sul 8° binario, è in partenza il treno per Barcelona Estacio Saint”.

Brucia quell’onda.

E’ tornata. Finalmente.

Non stai pensando a nulla.

E’ l’istinto animale di sopravvivenza che ti muove.

Che vada oltre il solito contratto con il senso di normalità e di conformità.

Che sappia veramente cosa vale e per cosa spendere tutte le energie,

che ti faccia uscire dalle file, sopportare la vergogna, i giudizi e portare avanti uno slancio.

Scorrono le pareti del sottopassaggio. Hai superato il cartellone col numero del tuo binario.

Sul tuo viso non si legge più il solito sorriso ben calibrato e dosato, nei tuoi occhi una luce antica.

Vai!

Non pensare a nulla.

Vai.

(O meglio, lasciati andare).

Entri nel vagone appena approdato al binario e ti senti come un marinaio che sale su una nave da esplorazione, verso un nuovo mondo.

L’eccitazione enorme che ti trovi nella pelle e nelle orecchie e negli occhi, ti lascia un varco istantaneo che raggiunge la ragione e ti dice

che sei partito.

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SENZAINFAMIASENZALODE

Mi guarda, e piano piano mi mostra il dito medio.

Ci guardiamo negli occhi per un minuto circa filato, finché non le dico: “Perché?” Lei mi risponde: “sfigato”

Io le ripeto: “perché?”

Lei non dice niente,

poi dopo altri 30 secondi che ci fissiamo le dico: “Per me, possiamo stare così tutta la serata..che hai? ti piacciono i miei occhi?”, lei fa spallucce.

I suoi, sono splendidi.

La adoro, mi fissa e mi sfida. Io la adoro. E’ splendida. Mi ha offeso, mi sta sfidando, ma la adoro. E non so neppure il perché mi stia facendo questo. La adoro. La adoro.

Lei lo sa:

sa quello che sono, sa che la voglio e mi mostra il medio.

Lei sa tutto e lo capisce, non so come, ma lo capisce. Io la voglio, e in qualche modo lei lo sa.

E’ con quel senza palle anonimo che ha attaccato lite col mio socio, “è il suo ragazzo?”, eppure non si sono scambiati neppure una carezza per tutta la serata, fatto sta che si accompagna con quel comune senzainfamiasenzalode insulso e pure bruttino.

Ha fatto spallucce e mi continua a fissare, io la guardo e le dico: “Sprechi il tuo tempo con me? guarda il tuo ragazzo, no?”. Mi guarda,

che begli occhi, la adoro. E’ splendida. E’ splendida.

All’improvviso mi viene un idea: mi alzo, mi faccio spazio tra le sedie e raggiungo il suo tavolo.

La guardo e le dico:

“Hai ragione a mandarmi a fanculo, e mi accodo a te: mi mando anch’io a fanculo. E sai perché? Perché appartengo a quel genere di persone che per timidezza non si avvicinano mai a un tavolo di un pub per dire con cortesia e stile a una ragazza come te, che la trovano bellissima, la più bella donna che abbiano mai incontrato.

Io  mi faccio coraggio, e ora, mi sento di chiederti scusa a nome di tutta questa categoria, perché non agiamo e alla fine vi costringiamo ad uscire con uomini vuoti e senza fascino”.

A quelle parole guardai il tizio senzainfamiasenzalode dritto negli occhi, lui accennò una reazione di finto orgoglio, ma si rimise a cuccia non appena vide dietro me Salvo e Gianni spostare di riflesso le sedie, pronti a raggiungerlo.

Conclusi:  

 “E se mi mandi a fanculo, forse è perché tutto questo, tu già lo sai” . 

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