I VECCHI SAGGI AL BAR CHE TI DANNO CONSIGLI SULLA VITA NON ESISTONO

Il grande Lebowski (1998). Fratelli Coen.

In treno, alla vista di campi imbiancati, ascoltando nelle cuffie l’ultima canzone di Halil Sezai, raggiunge la mia mente qualche riflessione sui modelli e le persone di valore.

I vecchi saggi al bar, che ti danno consigli sulla vita non esistono.

Esiste sempre, per ognuno di noi, quella persona che nel più profondo del cuore, siamo indotti ad aspettare.

Quel saggio che non conosciamo, che ci dirà in una sola volta un paio di segreti sulla vita. Le chiavi per capire ogni situazione, funzionare in tutto.

Quella figura è un mito, un simbolo. Quell’esempio autorevole di successo esiste fin tanto che esiste la sua rappresentazione nella nostra testa.

Il navigato che quasi sempre ha più o meno il volto del tizio che incontra il Drugo al bancone del bar, tra una partita di Boowling e l’altra.

Un’aspetto un po’ country, più o meno identico a quello di Kenny Rogers.

Uno che ci ricordi, con l’autorevolezza di chi la vita l’ha vissuta, che a volte “tu mangi il toro”, ma che altre volte è “il toro che mangia te”.

Uno, che insomma ti ricordi che “devi sapere lasciare il tavolo da gioco quando non hai il punto”, e che il problema è riconoscere di non avere più alcun punto in quella specifica mano.

Tutte cose belle e sagge.

Ma quei personaggi lì non esistono.

La verità è che sono idee romantiche e che siamo noi che dobbiamo mettere mano ai nostri schemi di pensiero per comprendere la natura della realtà. Siamo noi che dobbiamo sforzarci di riconoscere, oltre quei veli di credenze acquisite, il nostro volto.

Riconoscere in noi stessi quel saggio lì.

Dobbiamo diventare uno che impari dalla realtà, e dalle sue diverse esperienze dirette. Dobbiamo diventare capaci di raccogliere significati dai vissuti e poi fare sintesi.

Capire questa cosa, ci fa smettere di aspettare ad oltranza e, auspicabilmente, restituisce attenzione al presente. Smettiamo di vivere perennemente in una scena di un film e saremo più liberi.

Siamo più belli noi dei personaggi dei film.

Facciamo un esercizio. Prendiamo un nostro mito e visualizziamolo. Pensiamo a quella volta che ha fatto quel bell’intervento durante la celebrazione del 30° anno di attività di quel certo regista.

Pensiamo a come era accorato e convinto nel tesserne le lodi.

Più ci soffermiamo sulla sua sicurezza, più ci troveremo fisiologicamente in modo riflessivo orientati a lui, abdicando a qualche livello di noi stessi, a qualsiasi pretesa di essere noi quelli competenti. E di conoscere noi le persone più competenti.

Quanto raccontava quel nostro begnamino, era tutto chiaro e accessibile. Quell’attore era una persona brillante perché aveva in bocca parole brillanti e parlava di una persona descritta come una persona brillante. La più brillante.

Hai capito? Il mito è semplificazione. E’ uno strumento retorico. Non esiste. Nella vita non esiste. Esiste creatività, dedizione, competenza, coraggio. Il mito lo fanno le relazioni e la narrazione attorno ad esse.

No? Allora, ti do un aiutino, “perché esistono i miti?”

Perché la gente ha una fottuta fame di identità. Una fottuta necessità di avere la sicurezza di valere qualcosa.

Da sempre, il modo migliore per essere sicuri di valere qualcosa è conoscere qualcuno che vale veramente qualcosa. E raccontarlo.

Che sia una persona davvero importante non ci dev’essere dubbio, perché è veramente uno che, e lo dicono in tanti, ha un intuito eccezionale, un fascino ineguagliabile, un estro e una mente inarrivabili. La reputation è fondamentale. Sia per chi ce l’ha, che per chi la costruisce, per proprietà transitiva: “se quello ha lavorato con quello là che ha un gran valore, dev’essere di valore anche lui”.

Ognuno si costruisca il suo mito, e lo posizioni ai vertici di una piramide. Si ricavi un suo spazietto tra le caselline della piramide: di spazio c’è n’è per chiunque. Del resto chi si prodiga per creare il nuovo mito e chi ci si infila prima degli altri, quando il mito sarà costruito, sarà più in alto degli altri nella piramide che dà valore a quel riferimento, e a sua volta ne godrà del prestigio di riflesso.

Il necessario è trovarsi un mito al vertice della piramide e gonfiarlo, gonfiarlo con tutto il fiato.

A volte quel mito è una persona, a volte è una attività, a volte è una canzone, a volte è un film. Quando diventa mito anche per noi che siamo all’ultimo livello della piramide, tutto ciò che porta con se quando lo incontriamo rimane fuori, e noi ci orientiamo ad esso.

Presto ci scordiamo di quello che avevamo noi, e quasi subito all’inizio di questa vita di uomini moderni, iniziamo a ricercare costantemente e gonfiare a volte questo a volte quello.

In un irrefrenabile rincorsa al riferimento, in un ineffabile intramontabile ma sofisticato grooming sociale,ci mostriamo intimamente le solite scimmie che spulciano il maschio alfa per ottenere protezione.

Ma quel mito, quel saggio, quell’uomo irreprensibile, non arriverà mai. Siamo noi che dobbiamo diventare quell’uomo lì. Dobbiamo rimodificare la postura mentale che ci hanno ortopedicamente disegnato i nostri accuditori e smettere di ricercare i vitelli d’oro, i santini, gli eroi, i miti.

Quell’uomo lì lo diventiamo rinunciando a questi modelli indotti. Agli idola tribus, direbbe qualcuno.

Guardando in noi e vicino a noi. Sbirciando e imparando a sbirciare tra gli episodi della nostra vita, cambiamo narrazione. Ribaltiamo il concetto di successo e iniziamo a riconoscere i veri uomini di successo. Per noi, non per i canoni di pensiero di chi ci ha preceduto. Questi ultimi, infatti, hanno compiuto la scalata sociale e hanno modificato i modelli e i costumi di riferimento a propria immagine e somiglianza.

Del resto, diceva Confucio: “si abbia in gloria l’uomo di successo in una società di valori, e si disperi il reietto. Si disperi invece l’uomo di successo in una società corrotta e si abbia in gloria l’uomo ai margini di quella società”.

Se cambiate il concetto di successo, un uomo di successo c’è sempre a fianco a noi.

Abbandoniamo la narrazione di tutti, tutti quelli che abbiamo conosciuto a servizio di quella piramide di referenze. Perché la differenza tra i loro talenti e i tuoi è solo che loro sono istituzionalizzati in quella rete di referenze. Tu no. Il genio c’è e rimarrà sempre anche fuori.

Occorre ribaltare gli schemi mentali e riuscire a vedere come grandi ed esemplari i talentuosi che in questa società di compromessi, piglianculo e puttane funzionali, non si sono piegati a quel sistema e che hanno mantenuto la loro integrità e a un certo punto della loro vita hanno fatto saltare il tavolo.

Quella piramide ha scelto componenti funzionali al proprio sostentamento. Non di certo inflessibili individui, pronti a fare saltare tutto e tutti per un puntiglio di dignità o integrità personale. Chi sta dentro l’apparato, ha in sola gloria l’apparato.

Niente deve entrare negli ingranaggi di questa grossa macchina di consensi e minacciarne il funzionamento.

Considero gran parte dei miti degli ultimi decenni personaggi compromessi, nella loro integrità e dignità.

I veri miti ho imparato a riconoscerli nelle persone non istituzionalizzate come mio padre, tuo padre, e magari piano piano ci metteremo dentro anche me e te, caro lettore.

Di idoli indotti dalla propaganda dei potenti vi invito a non averli. Io non ne ho.

Scelgo i miei di esempi.

Riconosco, tra i sassolini che ho raccolto per la mia via, le persone integre che valgono cento volte di più di certi mestieranti che gridano per farsi notare.

Persone che a un certo punto della loro vita hanno mandato a fanculo i loro impresari e si sono (spesso) rovinati la carriera.

Ma si sono salvati l’anima.

Kennet Rogers – The Gambler (1978)

Ad maiora,

Kaan Reed